Mela (La) - Pomme (La)
Regia: | Samira Makhmalbaf |
Vietato: | No |
Video: | Lucky Red Home Video |
DVD: | |
Genere: | Metafora |
Tipologia: | Infanzia di ogni colore, La condizione femminile |
Eta' consigliata: | Scuole medie inferiori; Scuole medie superiori |
Soggetto: | Mohsen Makhmalbaf |
Sceneggiatura: | Mohsen Makhmalbaf |
Fotografia: | Mohamad Ahmadi, Ebrahim Ghafori |
Musiche: | |
Montaggio: | Mohsen Makhmalbaf |
Scenografia: | |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Massoumeh Naderi, Zahra Naderi, Azizeh Mohamadi, Ghorbanali Naderi, Zahra Saghrisaz |
Produzione: | Makhmalbaf Productions, Mk 2 Productions |
Distribuzione: | Lucky Red |
Origine: | Iran |
Anno: | 1998 |
Durata:
| 85'
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Trama:
| In un quartiere periferico di Teheran i genitori di due gemelline analfabete di dodici anni sono denunciati dai vicini perché le tengono da sempre segregate in casa. Il caso - ispirato a un fatto vero - finisce sui giornali. All'assistente sociale il padre spiega che il suo comportamento è dettato dalla sua condizione di miseria, dalla cecità della moglie e dalla preoccupazione per l'incolumità delle bambine.
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Critica 1: | Ha esordito l'anno scorso a Cannes nella regia, appena diciottenne, la figlia di uno dei maestri del cinema iraniano: Samira Makhmalbaf, figlia di Moshen. Ed ha esordito con un piccolo film "al femminile", dove gli sguardi curiosi e stupefatti di due ragazzine dodicenni vagano negli scorci di un "esterno" che per loro si è appena dischiuso, affascinate da una mela appesa a un filo. La mela (scritto e montato da Moshen Makhmalbaf) è un film che sa chiedere, con la determinazione dell'assistente sociale, ma anche, con la spavalderia gioiosa delle bambine alla conquista di un mondo che non conoscono, libertà per tutti: le ragazzine, il padre, vecchio vigliacco piuttosto ipocrita, ma anche lui condizionato da una realtà culturale immutabile, forse persino la madre, cieca e accecata dal chador, il simbolo più inquietante e misterioso del film. Ispirato a un fatto realmente accaduto e ripreso dalla cronaca, girati con un rigore che in numerosi passaggi sfiora il documentarismo, sostenuto da , una felicità di fondo istintiva, sa incuriosire e divertire, senza per questo dimenticare mai il suo sottofondo di rabbia e senza perdere di vista la precisione della composizione delle inquadrature. |
Autore critica: | Emanuela Martini |
Fonte critica | Film TV |
Data critica:
| 16/1/1999
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Critica 2: | Immaginate un film firmato Makhmalbaf che assomiglia a un film di Kiarostami. È, in soldoni, il risultato di un'operazione di famiglia che vede alla regia di La mela l'allora (lo scorso anno) diciottenne Samira Makhmalbaf, su una sceneggiatura - da una storia vera - del papà, Moshen, con montaggio del medesimo. Il risultato è più sincero e toccante dell'ultimo Makhmalbaf padre, Il silenzio, e più acerbo dei film di Kiarostami. E se ancora una volta il film va a toccare il tema dell'infanzia, molto percorso dal cinema iraniano, lo fa attraverso un'ottica fortemente "femminilizzata". Le protagoniste sono due ragazzine gemelle da sempre chiuse in casa dal vecchio padre, che dà un'interpretazione restrittiva e patologica del Corano ("le mie figlie sono come dei fiori, non dovrebbero essere esposte al sole, altrimenti morirebbero"). Sono donne le vicine impietosite dalla condizione delle due bambine che denunciano il fatto alle autorità. È donna l'assistente sociale che di fronte al disastroso stato delle due bambine interviene legalmente. E c'è infine la madre cieca delle due fanciulle, ostinata sostenitrice della loro segregazione, complice del suo e del loro disastro. La cosa straordinaria è che Samira Makhmalbaf racconta la storia con la partecipazione dei veri protagonisti, in una sorta di ricostruzione del delitto - che non si sa quanto effetto abbia avuto sul protagonista maschile della vicenda, Ghorbanali Naderi, mezzo mendicante mezzo mullah, che mentre partecipava alla lavorazione del film sapeva che le gemelle sarebbero state affidate a un'altra famiglia. Certo le due ragazzine prigioniere delle paure e delle superstizione del padre, che le ha segregate in casa sino a ridurle a uno stato di semi idiozia e di incapacità di esprimersi, avranno trovato, alla fine della loro drammatica storia e della catartica ricostruzione messa in cinema da Samira, un senso diverso alla loro vita. Il prezzo è, semplicemente, la condanna del padre. La possibilità di leggere la storia di Zarah e Massoumeh come una metafora della condizione della donna in Iran mette a disagio - anche se la segregazione femminile simboleggiata dal chador è, nei casi non patologici, molto più sofisticata, articolata e permissiva. Il principio è pur sempre quello. Girato all'inizio in video, e in pellicola quando sono arrivati i soldi, comunque con un minibudget, La mela ha il rigore di un docudrama, salvo qualche dispersione di colore quando le ragazzine sono finalmente liberate e sperimentano i primi assaggi della loro libertà. Ma a far sentire il tocco autoriale della giovane regista risaltano alcune immagini toccanti: la mano infantile di una delle due sorelline che si sporge fuori dalla grata dietro cui sono rinchiuse per dare un po' d'acqua a un fiore che cresce solitario in un vaso, o la mela, simbolo quasi biblico della ritrovata conoscenza, che pende di fronte al volto velato della madre, la complice, la "collaborazionista", senza che lei riesca a prenderla. |
Autore critica: | Irene Bignardi |
Fonte critica: | la Repubblica |
Data critica:
| 30/3/1999
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Critica 3: | Ispirato a un fatto realmente accaduto in un quartiere della capitale iraniana, il film ha come interpreti gli autentici protagonisti della vicenda. Partecipare alla rappresentazione della propria storia attraverso il cinema significa, infatti, per ciascuno di loro svolgere un percorso terapeutico di confronto e di rielaborazione dell’esperienza personale. Non a caso la prima parte del film presenta immagini video, un evidente riferimento alla cronaca che ne ha ispirato la messa in scena, mentre il resto dell’opera è girato in pellicola. Nelle intenzioni degli autori vi è dunque l’ambizione di attribuire alla pratica cinematografica un valore formativo che si ponga come valido supporto a una pratica di assistenza sociale che non si fermi alla limitazione del danno, ma che sappia incidere in modo propositivo sul riscatto degli individui.
Attraverso il tema dell’infanzia, assai diffuso nella cinematografia iraniana, si intende concentrare l’attenzione su temi di fondamentale rilevanza sociale quali la povertà, l’analfabetismo e la separazione forzata dell’individuo dal resto della comunità. Si stabilisce in questo modo una relazione tra le varie condizioni, ma si sottolinea anche come gli esseri umani possano giustificare i loro comportamenti ingiusti e scorretti motivandoli con la condizione materiale e culturale in cui versano.
Nel film si fa un ampio utilizzo di simboli. Innanzitutto la mela che dà il titolo all’opera, frutto della conoscenza e simbolo del peccato allo stesso tempo, da cui sono tentati prima o poi tutti i personaggi. Vedi la mela utilizzata come esca dall’assistente sociale per invitare le piccole a uscire e, nel finale del film, la mela appesa a un filo, per seguire la quale la madre abbandona le stanze buie della casa ed esce in strada. Assai significativa è anche, in tal senso, la pratica quotidiana esercitata dalle due bambine di innaffiare la piantina di melo che sta dentro ai muri di casa.
Un altro simbolo diffuso nel film è lo specchio. Gli specchietti regalati a Zarah e a Massoumeh assolvono infatti una duplice funzione. Se da una parte costituiscono un divertente intrattenimento, dall’altra rappresentano la progressiva presa di coscienza di sé, della propria identità e condizione, da parte delle protagoniste. Da qui la scelta di rappresentare la loro madre come assolutamente refrattaria a mostrare la propria immagine, a sé e agli altri. Dietro alla presenza del chador che nasconde il volto della donna, il film intende esprimere il peso di una tradizione culturale dove è il marito a gestire in toto l’immagine delle componenti femminili della propria famiglia. È quest’ultimo ad affermare, infatti, che la donna è come un fiore e se prende il sole appassisce.
Soltanto un percorso lungo e complesso può portare le protagoniste fuori da una visione del mondo che è quella imposta dalla cecità dei genitori, parziale nel padre, totale nella madre (la cecità costituisce infatti un’altra metafora utilizzata nel film). Come capita alle due piccole che, dapprima barcollando vistosamente, un po’ alla volta escono in mezzo alla strada, iniziano goffamente ad assaggiare il mondo sotto forma di un gelato, fanno amicizia con alcune coetanee più libere e, infine, esplorano il loro quartiere, innamorandosi del ticchettío di un orologio, un oggetto che bene rappresenta e auspica l’avvento di un nuovo tempo.
Umberto Mosca |
Autore critica: | Aiace Torino |
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Libro da cui e' stato tratto il film |
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