Elephant - Elephant
Regia: | Gus Van Sant |
Vietato: | 14 |
Video: | Bim |
DVD: | Bim |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | Disagio giovanile |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Gus Van Sant |
Sceneggiatura: | Gus Van Sant |
Fotografia: | Harris Savides |
Musiche: | |
Montaggio: | Gus Van Sant |
Scenografia: | Benjamin Hayden |
Costumi: | Marychris Mass |
Effetti: | |
Interpreti: | Alex Frost (Alex), Eric Deulen (Eric), John Robinson (John McFarland), Elias McConnell (Elias), Jordan Taylor (Jordan), Carrie Finklea (Carrie), Nicole George (Nicole), Brittany Mountain (Brittany), Alicia Miles (Acadia), Kristen Hicks (Michelle), Bennie Dixon (Benny), Nathan Tyson (Nathan), Timothy Bottoms (il signor McFarland), Matt Malloy (il signor Luce), Chantelle Chriestenson (Noelle), Sherilyn Lawson, Sarah Lucht, Larry Laverty, Dave Stippich, Ellis E. Williams (insegnanti), Jason Seitz, Elisa De La Motte, Sarah Bing (studenti |
Produzione: | Dany Wolf per Blue Rilief Productions - Meno Films - Hbo Films |
Distribuzione: | Bim |
Origine: | Usa |
Anno: | 2003 |
Durata:
| 81'
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Trama:
| In una high-school di Portland un gruppo di ragazzi e ragazze è impegnato in una serie di attività quotidiane. John viene ripreso dal preside dopo essere arrivato alla high school con il padre che soffre di problemi di alcolismo, Michelle fa fatica ad integrarsi con le compagne, Elias scatta e sviluppa fotografie in laboratorio, Jordan incontra nei corridoi la fidanzata, Alex è schivo e introverso. Brittany, Nicole e Carrie discutono della loro amicizia, dei loro fidanzati, dei progetti per il week-end, del loro futuro universitario nella caffetteria della scuola. Si riunisce, intanto la Gay Straight Alliance, un gruppo di lavoro per discutere delle minoranze sessuali. Insegnanti, ragazzi e ragazze discutono da quali atteggiamenti sia possibi-le riconoscere un gay.
Tutto procede nella più assoluta normalità e tranquillità, fino a quando Alex ed Eric, suo amico intimo, ordinano via Internet due fucili. I due, dopo aver raccolto una serie di dati sulla logi-stica della scuola, piantina alla mano, elaborano un piano per farvi irruzione. Prima provano i fucili a casa, poi si dirigono alla scuola in macchina. Le bombe innescate non esplodono e quindi procedono con il piano B che prevede l'eliminazione di professori e studenti uno ad uno. Prima entrano nella libreria, poi corrono nei corridoi; sotto i loro colpi cadono l'insegnante Luce, Brittany, Nicole e Carrie ancora in bagno per smaltire quello che hanno appena mangiato ed infine Jordan con la fidanzata, riparatisi nel freezer della cucina per scappare alla follia omicida di Alex. All'esterno della scuola John intima a tutti di non entrare; si intravede del fumo che esce dalle fine-stre. L'atmosfera è di totale panico. John ritrova il padre dicendogli di stare tranquillo.
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Critica 1: | Il titolo è preso da un documentario sulla violenza in una scuola irlandese dell’inglese Alan Clarke, ma Van Sant si rifà anche ad una parabola buddista, in cui un uomo cieco è convinto di conoscere la vera natura dell’elefante basandosi sulla parte che ne sente al tatto, quindi è convinto che sia come un serpente, un albero o altro senza mai afferrarne il tutto.
Gus seziona come il cieco il corpus/campus dell’universo “giovanile” e scende tra John, Eli, Nate, Michelle e gli altri protagonisti di Elephant (tutti attori non professionisti che nel film conservano lo stesso nome) in una giornata apparentemente normale; si affida spesso alla steadycam per seguirne gli spostamenti, frammenta lo spazio/tempo cercando e filmando tutti i punti di vista sulle stesse azioni. Ma non è un film di forma, anche se il “marchio autoriale” è ribadito nella scelta di girare nel formato 1:33, oggi usato soltanto da Straub-Huillet, e non il canonico 1:85, è innanzitutto un film sentito, che guarda svilupparsi una tragedia tra chiacchiere quotidiane, football, e abitudini di normali adolescenti.
Van Sant, vero alternativo nella cultura americana, non è morale. Eric e Alex, autori della strage, sono visti come gli altri; “quella mattina” giocano al computer, suonano il pianoforte, coltivano la loro passione per le armi: normale in un Paese che le vende per corrispondenza mentre alla televisione manda documentari sui metodi di propaganda nazista. Il problema è proprio nel mondo che appare sempre sfocato sullo sfondi di corpi vivi, che si portano addosso il peso di genitori come il padre di John, “il responsabile” del film (c’è lo sportivo, il fotografo, il punk...), unico superstite, che lo guida (letteralmente, gli toglie di mano il volante) all’inizio come alla fine. Se c’è salvezza questa è proprio nei ragazzi, è il messaggio di Van Sant, l’unico, in un film girato tutto in campo medio, metafora della media età (e della parabola buddista, sfondo e totali sempre sfocati) che ci racconta che si aggiunge alla sequenza delle nuvole che si addensano prima del temporale. Breve (80’), dolce e monocorde, come un disco degli Husker Dü. |
Autore critica: | Fulvio Baglivi |
Fonte critica | sentieriselvaggi.it |
Data critica:
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Critica 2: | Dopo le esperienze hollywoodiane, Gus Van Sant è tornato alla produzione indipendente. Non che film come Will Hunting o Scoprendo Forrester mancassero di qualità, anzi; solo che Gus, da degno figlio della controcultura americana, è capace di rinunciare ai privilegi della categoria "mainstream" pur di fare esattamente il cinema che vuole. Lo ha dimostrato col precedente Gerry (non ancora uscito in Italia: ma ci arriverà tra poco), lo ha ribadito con Elephant, che a Cannes si è aggiudicato in un colpo solo la Palma d'oro e il premio per la migliore regia. Eppure, prima che la HBO accettasse di finanziarlo, il soggetto era sembrato troppo imbarazzante ai produttori interpellati dal regista. L'episodio evoca un fatto realmente accaduto: la strage del liceo di Columbine, che aveva già ispirato un film (omonimo) a Alan Clarke e al quale, l'anno scorso, Michael Moore dedicò l'eccezionale Bowling for Columbine. Più che un semplice film, nel senso del tipo d'intrattenimento con cui siamo abituati a intendere il termine, Elephant (il titolo si riferisce ai massacri compiuti dai pachidermi impazziti) è un'esperienza che ti lascia ammirato e, insieme, t'immerge in un profondo disagio. Là dove Moore conduceva un'inchiesta con le risposte già pronte in mente, Van Sant rappresenta invece i fatti come fosse all'oscuro dell'accaduto e li venisse scoprendo assieme allo spettatore: per far ciò mette in scena, con tocchi da impressionista, le ore che precedono la tragedia, le normali attività quotidiane che si svolgono nello spazio (apparentemente) protetto del liceo. Nulla di particolare avviene dentro l'isolotto iperregolato della scuola: i ragazzi (giovani sconosciuti scelti nella regione di Portland ) seguono le lezioni, flirtano, mangiano, fanno fotografie. La cinepresa li segue in lunghi piani-sequenza montati senza stacchi; praticamente li pedina, mettendo la cinepresa appena dietro le loro spalle per seguirne meglio le azioni. Le medesime situazioni tornano più volte, da differenti punti di vista: tanto che è difficile distinguere il flashback dal flashforward. Poi gli eventi precipitano. Due liceali in tuta mimetica, che hanno dichiarato guerra alla scuola, irrompono nell'edificio e uccidono tutti i coetanei che trovano sulla loro strada. La strage è terrificante: sembra un teen-movie dell'orrore, collocato in uno spazio fattosi improvvisamente fantasmatico; invece sono atti ben concreti, dei quali il film rifiuta di fornire approssimative spiegazioni sociologiche. Non c'è catarsi finale, né alcun tentativo di rassicurare: in questo consistono, a conti fatti, la terribilità e la bellezza di un film che s'installa nella mente dello spettatore, e proprio per il modo in cui sfugge ai canoni in uso nel discorso cinematografico. |
Autore critica: | Roberto Nepoti |
Fonte critica: | la Repubblica |
Data critica:
| 3/10/2003
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Critica 3: | Bologna, 5 Ottobre, h. 18,40: Cinema Arlecchino, all'uscita. Tra la folla una ragazza dice, in tono incerto e insicuro, a uno dei suoi amici, che escono insieme a lei: «Ma non è un brutto film...». E l'altro, in risposta: «No, è snervante». Perfetto.
Sì, perché Elephant è davvero un bel film, ed è pure sner-vante. Solo che sarà bene intendersi: un film non è snervante in se stesso, ma solo e sempre in relazione a quel che ci aspet-tiamo da esso. Si presume che spesso chi va al cinema si sia procurato un minimo di informazione su quel che va a vedere. E quindi che la maggior parte degli spettatori in quel locale sapesse, perlomeno, che si trattava di una pellicola su un ecci-dio di studenti americani compiuto da loro coetanei nella comune scuola.
America? Studenti? Eccidio? Ce n'è abbastanza per aspet-tarsi un bel polpettone violento, pieno di musica rock, di gergo giovanile e da un certo momento in poi di urla e sangue a fiu-mi, magari condito all'inizio da qualche party con erba (e magari anche una scena osée) e alla fine da automobili della polizia con sirena spiegata e luce alternata che si ammassano fuori dall'edificio, ispettore col megafono, tiratori scelti appo-stati e via dicendo. E invece no. Per gran parte della sua dura-ta il film segue pedissequamente uno studente dopo l'altro senza che accada nulla (o quasi nulla). Emerge invece, a poco a poco, una galleria di ritratti straordinaria, proprio perché rie-sce a rimanere nei confini dell'ordinario. Che cosa (non) succe-de?, si domanda lo spettatore.
Il punto è proprio questo: non succede niente. In altre paro-le, Van Sant scardina la retorica narrativa hollywoodiana (ma siamo sicuri che si tratti soltanto di Hollywood?) fatta di pre-parazione, di costruzione di momenti forti attraverso la accu-rata giustapposizione di momenti deboli. Giustamente il regi-sta ha scelto attori sconosciuti: un volto noto (poniamo, un Matt Damon: si fa per dire, ormai non c'ha più l'età) avrebbe falsato tutto.
Elephant non è una pellicola fatta per piacere al pubblico che va al cinema per sentirsi raccontare continuamente, come i bambini, la stessa fiaba (paurosa, certo). Van Sant non intrattiene, ma trattiene: trattiene lo spettatore dal rilassarsi nell'attesa – immancabile – di rocambolesche sequenze d'azio-ne, di spettacolari conflitti a fuoco, di una suspense, che ormai ci viene servita anche nel più anonimo telefilm. E un'opera disturbante (snervante?) perché non costruisce alcun disturbo seguendo i canoni del film drammatico d'azione: quella nuca (di chiunque) seguìta silenziosamente e pazientemente lungo corridoi più lunghi che a Marienbad non ci porta in nessuna Camera degli Orrori, né sta per essere ferita a morte da una pallottola o da un coltello impietoso e sadico.
Elephant, insomma, è un continuo, pervicace anticlimax che ci dice: nel caso vogliate la realtà, eccola qua. La realtà non è la retorica del racconto cinematografico odierno, la realtà è fatta di niente. Niente, sia chiaro ancora una volta, in relazio-ne alle attese di spettacolarità cui ci ha abituato un cinema sempre identico e se stesso, che per di più da un certo tempo ha trovato nel digitale la possibilità di fingere una nuova dire-zione, laddove esso invece non fa altro che perpetuare, in modo tecnicamente aggiornato, quella vecchia.
Non solo Elephant non appartiene all'universo retorico hollywoodiano, ma nemmeno a quello del film a tesi. Non concio-na, infatti, sulle armi da fuoco, ma imposta se mai il discorso nei confronti dell'alienazione giovanile. Lo fa, tuttavia, a modo suo, cioè mostrando invece di parlare. Insomma, fenomenolo-gia. Il futuro assassino emarginato e beffato dai compagni in aula, le tre smorfiosette vuote come una cisterna africana, la coppietta non meno banale di loro, la stereotipicità e l'incon-scio razzismo del gruppo per la parità dei diversi sessuali, l'al-lucinante isolamento della goffa Michelle, ecc. Van Sant non fa prediche né inchieste: si limita a far vedere personaggi che potremmo incontrare ogni giorno in una comunità scolastica (e non solo americana), e a farli vedere come se la macchina da presa non ci fosse. Un film senza macchina da presa? Certo che è snervante.
Ma è anche qualcos'altro: è memorabile. Nel senso che, libe-rato dagli orpelli della retorica del film drammatico d'azione, lo spettatore ha alla fine incamerato un universo visivo alquanto inedito, la cui memorabilità è paradossalmente pro-prio nella sua non memorabilità. Esci dal cinema e per ore e giorni ti tornano alla mente singole, specifiche immagini del film, non necessariamente connesse in termini narrativi al massacro – il quale è giustamente mostrato nel modo meno spettacolare possibile (quanto sparano i due senza che noi si veda l'oggetto del loro fuoco) – ma comunque indirettamente collegate all'eccezionalità del fatto. Il disagio che prende lo spettatore, insomma, parte dal tipo di scelta narrativa e dal suo ritmo ma riporta – verrebbe da dire: inconsciamente – alla mostruosità che in seconda battuta invade quell'universo.
Seconda battuta? Per modo di dire: il tempo del film (…) non solo è ristrettissimo, ma sovrappone frammenti della vita di ogni personaggio in quei pochi minuti all'interno della scuola che precedono il massacro. Come in un mappa-mondo "sviluppato" noi abbiamo una destra e una sini-stra (cioè vediamo un prima e un poi) che in realtà si sovrappongono. In questo senso un altro nume tutela-re è quello di Robert Altman, che, almeno in America oggi (ma in qualche misura anche in Nashville) ha operato – più blandamente, è vero – in questa direzio-ne. Non si tratta evidentemente di un espediente per presentare i diversi caratteri dei personaggi (un'opera-zione che non avrebbe avuto bisogno di questo tipo di frammentazione): quel che di esso colpisce è piuttosto la diversa angolazione da cui più d'una volta osservia-mo la stessa scena o situazione. C'è però una di tali situazioni che viene mostrata per ben tre volte, quella della fotografia che Elias fa a John: la seconda volta ci si rende conto che qualcosa non torna, ché, stando all'imposta-zione della prima volta, dopo la foto Elias dovrebbe prendere nel corridoio la direzione esattamente opposta a quella che invece egli prende. Si tratta insomma di una sorta di trompe -l'oeil filmico del quale non sembra facile spiegare la ragione, e che del resto non viene chiarito dalla terza volta, nella quale l'azione viene tagliata prima che Elias si incammini nel corri-doio, da una parte o dall'altra che sia. Probabilmente non sapremo mai la ragione di questa incongruenza: si potrebbe trattare di un modo per alludere alle possibili défaillances del-la memoria; oppure e semplicemente di un gioco/test inserito dal regista; od altro ancora. In ogni caso non è possibile legger-lo come una svista: in questo film così attento al dettaglio, così ravvicinato allo spazio e al movimento dei suoi personaggi, ciò non sarebbe sostenibile. Piuttosto, preferiamo intenderlo come una occasionale riflessione sugli imprevedibili risvolti che tie-ne in serbo la complessa forma del Tempo, la quale condiziona – ovvio principio di fisica - lo spazio stesso.
E a proposito di spazio e di tempo, non v'è dubbio che Elephant prosegua – in ambito formale – da un lato la fram-mentazione cronologica intricata, complessa, indirimibile che già era nel diseguale, ma a tratti intensissimo, Cowgirl: il nuovo sesso, e dall'altra la strada aperta con Gerry, presen-tandosi come concreta, specifica applicazione della sperimen-tazione teorica della pellicola precedente. Da kleeiane "figure in un paesaggio" (non uso a caso questa etichetta, che riman-da anche a Losey) i protagonisti vedono prender forma e sostanza attorno a loro i contorni di un luogo specifico, la sua topografia, nella quale si muovono con la stessa deter-minazione testarda e silenziosa. Sì, perché questo è in fondo un film muto nel quale voci e rumori sono solo fonte di fastidio: non soltanto per il giovane assassino quando per la prima volta è mostrato nella sala pran-zo, ma anche quando il preside convoca e rimprovera, le ragazzine stupidelle ciarlano come stolidi passeri, la coppia intavola una conversazione tanto banale da far invidia ai bidimensionali personaggi del primo Jonesco. Il giovane John, il personaggio più tenero del film, ha qualcosa di autistico, o comunque una serietà silenziosa e adulta che non ha bisogno di parole. Forse perché non saprebbe quali parole usare: quando l'ami-chetta gli chiede perché piange, egli le risponde «Non lo so», e allora lo spettatore comprende che la carica di serietà, responsabilità, buon senso fin superiori all'età che in apertura di film viene spontaneo attri-buire al ragazzo va ridimensionata, nel senso che, dopotutto, e al di là dalla maturità da lui dimostrata, si tratta pur sempre di un adolescente confuso da un mondo adulto nel quale egli non si riconosce. In fondo, e naturalmente solo in parte, un bell'autoritratto del regista stesso. |
Autore critica: | Franco La Polla |
Fonte critica: | Cineforum n. 430 |
Data critica:
| 12/2003
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Libro da cui e' stato tratto il film |
Titolo libro: | |
Autore libro: | |
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