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Madame Bovary - Madame Bovary

Regia:Claude Chabrol
Vietato:No
Video:Panarecord
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:La condizione femminile, Letteratura francese - 800
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Tratto dal romanzo omonimo di Gustave Flaubert
Sceneggiatura:Claude Chabrol
Fotografia:Jean Rabier
Musiche:Matthieu Chabrol da Scarlatti, Donizzetti, J.Strauss
Montaggio:Monique Fardoulis
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Jean François Balmer, Thomas Chabrol, Isabelle Huppert, Christophe Malovoy, Marie Mergey
Produzione:Marin Karmitz (Mk2 Productions S.A.) Ced Productions, Fr3 Films Productions, Paris
Distribuzione:Academy
Origine:Francia
Anno:1991
Durata:

140'

Trama:

Emma, giovane ed irrequieta figlia di un agricoltore francese, sposa il dottor Charles Bovary. Questo matrimonio, malgrado la bontà e le premure di un marito fedele e affezionato, e la nascita di una bambina, Berthe, va in crisi. Sempre annoiata, un po' altezzosa, amante dei begli abiti e insofferente dell'uggia familiare, Emma accetta con speranza che Charles si trasferisca a Thionville. Conosciuto l'assistente di un notaio, Leon, flirta con lui; partito Leon per Parigi, resta affascinata dai modi e dalle insidiose parole del marchese Rodolphe Boulanger e ne diviene l'amante. Charles continua ad adorare la moglie, che nel frattempo è caduta nelle grinfie di un ricco commerciante di stoffe, strozzino e ricattatore.

Critica 1:Dopo il film TV del 1974 con la regia di Pierre Cardinal, è la quarta versione del capolavoro di Gustave Flaubert, contraddistinta da una scrupolosa fedeltà illustrativa, realizzata con una esposizione spiccia, agile, ellittica che raramente si dispiega in sequenze larghe. Una volta accettata l'impostazione, non si può non ammirarne i modi espressivi, la coerenza, la fluidità e l'intensa interpretazione di I. Huppert. L'equilibrio tra la lucidità di sguardo di C. Chabrol (e di Flaubert) e l'affetto per il personaggio (del regista e della sua interprete) sembra impeccabile.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:È Chabrol fedele a Flaubert? E M.me Bovary a Chabrol? E Isabelle Huppert a M.me Bovary? Pare proprio che intorno alla più celebre fedifraga mai uscita dalle pagine di un romanzo non si possa che disquisire di fedeltà. A un archetipo, più che a un personaggio, a un mito, più che a un romanziere. Entrare nelle storie 'degli altri' non è certo un'esperienza nuova per Chabrol, perfettamente a suo agio tra i crimini e i misfatti della letteratura cosiddetta minore: Fréderic Dard, Hubert Monteilhet, Dominique Roulet... fino a Simenon, Henry James e Patricia Highsmith: universi corrotti nei quali il suo cinema ha apportato un rigoroso ordine morale costruito sul ribaltamento delle apparenze e dei valori acquisiti.
Il disagio che emana da questo incontro con Flaubert non deriva tanto dal carisma autoriale dello scrittore (c'è anche Goethe nella filmografia di Chabrol, Les affinités électives, realizzato per la tv nell'82) quanto da una sovrapposizione di scritture: quella di Flaubert, che assedia i personaggi e la storia con l'assillo di oggettivizzarli, quella del regista, non certo trasparente nel fluttuare dei punti di vista che traduce in sguardi l'attrazione e lo sgomento per il 'mistero' Emma Bovary. L'ambientazione ottocentesca curata (com'è ovvio, non trattandosi dell'opera di un dilettante) in ogni dettaglio, la presunta competitività con l'opera letteraria nel travaglio formale, eventuali riferimenti a precedenti 'riduzioni' entrate nella storia del cinema, sono elementi di approccio depistanti rispetto a un punto fermo: M.me Bovary appartiene di diritto alla poetica chabroliana.
Personaggio complesso e inafferrabile inserito in un contesto che palesa un ordine quasi perfetto e comunque indiscutibile, imbocca e segue fino in fondo un percorso lineare e incanala nella sua vettorialità la vertigine e il caos. Nella "putrefazione confortevole, e piacevole a filmarsi" della piccola borghesia rurale dell'800 francese, nella mediocrità delle aspirazioni, Emma tesse disfa e ritesse in silenzio un suo gran rifiuto, consapevole soltanto di essere, comunque, colpevole. Charles, cui è legata da amore contrattuale, è il suo specchio, il suo alter ego. La graduale ma inequivocabile trasformazione di quest'ultimo da personaggio tutto sommato positivo, 'buono' e innamorato in inetto e pusillanime è passo passo funzionale al progressivo arrendersi di Emma al male necessario che la invade. Del resto, il nome Charles è un po' la cifra del cinema di Chabrol: lo portano uomini destinati a rivelarsi ben diversi da come appaiono alla luce di un giudizio immediato. Qui il marito diventa cartina di tornasole del dramma inenarrabile di Emma e nel contempo portatore, per antitesi, del giudizio morale nei riguardi della donna.
Sola in un mondo (meglio, in una storia) tutta di uomini, adotta nei loro confronti (nessuno escluso, nemmeno gli amanti) una forma di comunicazione del tutto convenzionale, consona alla realtà apparente ma sempre più profondamente scissa dal suo io: la ragazza sana sensuale e libera dei Bertaux è entrata col matrimonio in un gioco che la costringe a fare della menzogna prima una difesa poi uno status. Da una condizione di malessere diffuso in cui il suo inconfessabile bisogno di 'qualcosa' si consuma in fantasie solitarie e in repentini slanci di 'normalità' (tentativi di amare il marito, di curare la casa, di amministrare saggiamente il denaro, di occuparsi della figlia) passa, dopo la malattia, a una fase di aggressione sotterranea ma implacabile della cellula familiare che intuisce come negazione vivente (proprio in Charles e nella piccola Berthe) dei suoi sogni romantici più che come nucleo generatore dell'intera società di cui ben razionalizza (né tanto meno ideologizza) gli aspetti oppressivi e frustranti. In uno stordimento crescente, simile a quello che colse come una premonizione lei (e lo spettatore) nel roteare delle gonne al valzer di Strauss durante la festa alla Vaubyessard, Emma passa dal primo al secondo amante inventandosi l'amore e acquista sete e velluti fino alla totale rovina economica per dimostrare a se stessa di esistere.
Chabrol non l'abbandona mai in questo percorso ora esaltante ora umiliante, comunque eroico. La mdp non si distrae mai da lei esasperandone così la soggettività esclusiva e morbosa, il punto di vista assolutamente unilaterale che rimane referente unico anche quando non è condiviso. Il regista, indifferente a una definizione psicologica del personaggio e assecondato da Isabelle Huppert che sembra volergli negare anche ogni pregnanza fisica (età, corpo, sensualità) riducendolo a pura 'forza', tenta invano di catturarlo in una rete di obiettività. Gli altri personaggi possono ignorare Emma o guardarla, credere alle sue menzogne o a loro volta ingannarla. Lei, fino all'ultimo oppone una resistenza passiva (anche alla mdp): si lascia cedere in moglie, amare, sedurre, abbandonare, abbindolare. "Sembrava attraversare l'esistenza sfiorandola appena..." Non riconosce ciò che la circonda, procede come vampirizzata dal suo destino.
Il suo tramite con la realtà è un sogno mai rivelato: e il film diventa un moderno omaggio alla sua impossibilità di essere normale, al segreto che tenta di tenere racchiuso in sé oltre la morte. La lunga terribile agonia, in cui la fine imminente coincide con la perdita del controllo sulle apparenze (e quindi il definitivo contatto con la 'verità') costringe Emma all'oggettività: a 'svelare' la sofferenza che emblematicamente prende l'aspetto di sudore vomito convulsioni.
È categoricamente escluso ogni generico significato di punizione autoindotta in questa fine che dà invece allo spettatore la misura e il peso materiale di una sofferenza troppo spesso scambiata per un melodramma borghese. Non a caso Chabrol (con un palese tradimento nei confronti di Flaubert) fa pronunciare a Charles quando scende le scale di casa col dottor Canivet dopo la morte della moglie la frase che invece avrebbe dovuto dire a Rodolphe dopo aver scoperto la sua tresca con Emma: "È stata una fatalità". L'uomo diventa piccolo piccolo, dominato dal destino, unica possibile chiave di lettura, unico sguardo da dentro.
Consapevolezza che si frantuma caleidoscopicamente nei frammenti di altre M.me Bovary incontrate nel cinema di Chabrol (le commesse 'facili' di Les bonnes femmes, la Why di Les biches, la Lucienne di Les noces rouges e, naturalmente, Violette Nozière) e, nello stesso tempo, di altre donne 'perdute' interpretate da Isabelle Huppert, prima tra tutte La dentellière di Goretta malata d'amore. A questo punto, forse, può nascere il sospetto legittimo di trovarsi di fronte ad un'operazione ripetitiva, che usa la provenienza letteraria e la cornice classica come la formula antirischio, ovvero come specchietto per le allodole.
Siamo forse di fronte a uno di quelli che proprio Chabrol ("Cahiers du Cinéma", ottobre'59) definisce "Grandi Soggetti" per dimostrare che essi in realtà in nulla differiscono dai piccoli e che la forza di un'idea è nel vero che ci porta a scoprire al di là delle apparenze e della messa in scena? E nella triste storia di Emma Bovary, "en verité, il n'y a que la verité".
Autore critica:Adelina Preziosi
Fonte critica:SegnoCinema n.53
Data critica:

gennaio-febbraio 1992

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:Madame Bovary
Autore libro:Flaubert Gustave

A cura di: Redazione Internet
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