Gente di Dublino - Dead (The)
Regia: | John Huston |
Vietato: | No |
Video: | Pentavideo, Medusa Video (Pepite) |
DVD: | |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | Letteratura inglese - 900 |
Eta' consigliata: | Scuole medie inferiori; Scuole medie superiori |
Soggetto: | Tratto dal romanzo omonimo di James Augustin Joyce |
Sceneggiatura: | Tony Huston |
Fotografia: | Fred Murphy |
Musiche: | Alex North |
Montaggio: | Roberto Silvi |
Scenografia: | |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Anjelica Huston, Helena Carroll, Cathleen Delaney, Donald Mccann |
Produzione: | Wieland Schulz Keil Chris Sievernich |
Distribuzione: | Non reperibile in pellicola |
Origine: | Usa |
Anno: | 1987 |
Durata:
| 84'
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Trama:
| A Dublino nel 1904 in una serata in prossimità del Natale, si svolge la tradizionale festa, che tre signorine della buona borghesia, due anziane sorelle, Kate e Julia Morkan, e la loro nipote Mary Jane, offrono ogni anno per amici e parenti. Si fa musica, si balla e si partecipa ad un ottimo pranzo, preparato completamente dalle padrone di casa. Gabriel Conroy, nipote prediletto delle signorine Morkan, e sua moglie Gretta sono gli ospiti principali e aiutano a ricevere gli invitati. Soprattutto è insostituibile Gabriel, incaricato dalle zie di svolgere incarichi delicati, come sorvegliare Freddy Matines, un caro amico troppo spesso ubriaco, o tagliare al momento opportuno l'oca arrosto, e, infine, pronunciare il discorsetto ufficiale. Egli è un uomo mediocre e tranquillo e fa tutto questo con la solita gentilezza e premura, mentre guarda ogni tanto soddisfatto la sua bella moglie, che partecipa alla riunione con un certo distacco. La conversazione è vivace e si parla molto di musica, essendo le padrone di casa delle appassionate musiciste. C'è anche un noto tenore, fra gli ospiti, ma sembra non voglia esibirsi, mentre la vecchia zia Julia, con voce molto flebile, canta una celebre aria in modo patetico. Tutti lodano l'ospitalità squisita delle tre signorine e il successo della festa. Poi viene l'ora di andarsene: Gabriel e Gretta sono rimasti fra gli ultimi e, poichè abitano lontano, per quella notte andranno all'albergo. Il marito è già pronto ad uscire e aspetta nell'ingresso la moglie, ma la vede fermarsi sulla scala all'improvviso, a poca distanza da lui: in quel momento il tenore, in una stanza al piano di sopra, ha iniziato a cantare una vecchia e triste canzone irlandese, e Gabriel scorge chiaramente che, ascoltandola, Gretta è commossa fino alle lacrime. Poi i due coniugi raggiungono in carrozza l'albergo, mentre nevica abbondantamente. Gabriel, vedendo la moglie sempre assorta e triste, le chiede il perchè del suo turbamento, e Gretta gli racconta, piangendo, che la canzone ascoltata le veniva cantata un tempo da un giovane che l'amava, quando lei, fanciulla, abitava con la nonna in un piccolo paese, e questo tenero e puro legame aveva dovuto interrompersi, quando lei era stata costretta a partire per venire in collegio a Dublino. Disperato per un addio, che prevedeva definitivo, Michael (così si chiamava il ragazzo), pur essendo ammalato molto gravemente, aveva passato un'intera giornata sotto la pioggia per rivederla un'ultima volta, e in quel colloquio le aveva confessato che non desiderava più vivere. Infatti, pochi giorni dopo l'arrivo in collegio, Gretta aveva saputo che egli era morto. Mentre Gabriel, sempre più turbato, ascolta il racconto, la moglie continua a piangere disperata. Finalmente, poi, si addormenta. Gabriel, invece, rimane a lungo sveglio, guardando la neve cadere e pensando a questo idillio di cui non sapeva nulla. Evidentemente c'è un lato di Gretta, che lui non conosce e che lo preoccupa: questo amore lontano, questo Michael, che è morto, è in realtà più vivo di lui e Gretta ne è ancora affascinata. Il marito guarda con tenerezza il viso della moglie, che sarà stato certo bellissimo quando ha ispirato un sentimento così profondo, ma ora comincia già a sfiorire un poco. E intanto nevica, nevica su tutta l'Irlanda, anche sul piccolo cimitero in collina, dove Michael è seppellito.
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Critica 1: | Come il racconto di James Joyce da cui è tratto, è una storia di grande semplicità: una festa post-natalizia nell'Irlanda del 1904, con amici della buona società di Dublino riuniti tra canti, oche arrosto e discorsetti, che si conclude con una inaspettata rivelazione. Semplice e perfetto, è un film mozartiano per armonia, funzionalità delle parti, capacità di esprimere l'ambiguità e la complessità della vita. È un bellissimo atto di congedo di Huston, un ateo che ama religiosamente la vita e gli uomini. |
Autore critica: | |
Fonte critica | Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli |
Data critica:
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Critica 2: | Benché sia difficile immaginare Huston come David Lean, attentissimo allo scrutinio degli aggettivi nel testo e alla loro riduzione cinematografica, capace di ripetere più volte una stessa inquadratura se la sciarpa di Miss Adela in Passaggio in India non svetta dall'automobile così come la descrive Forster, benché, insomma, la mitologia del vecchio leone della macchina da presa lo voglia essenziale ed economico nelle riprese, amante delle buone sceneggiature ma disponibilissimo a farle scrivere agli altri senza sentirsi menomato nella sua dignità d'autore, malgrado ciò, The Dead è un capolavoro di fedeltà al testo, o meglio uno straordinario modello di lucidità e strategie nel passaggio dalla letteratura al cinema. In realtà il testo di Joyce (accarezzato anche da progetti di Antonioni) sembra a prima vista quasi un testo ideale per riduzioni cinematografiche-teatrali: si svolge in una rigorosa unità di spazi e l'uso del discorso libero indiretto, alternato al ricorso calibrato ma continuo ai dialoghi, non sembra presentare drammatici problemi di trasposizione come spesso invece accade alla letteratura contemporanea. A questo aspetto formale di superficie fa da contraltare però una sostanziale esilità dell'azione (lo stesso Huston diceva che l'azione più rilevante del racconto è il passaggio di bicchieri di porto per la tavola), l'obbligo di un montaggio lineare per semplice accumulo di microeventi che si alternano e si modificano nel medesimo ambiente, oltre alla difficoltà di dover riempire i vuoti del “traliccio” della scrittura (...), ovvero di risolvere cinematograficamente le digressioni e quanto di indeterminato e indefinito appartiene alla scrittura. Benché The Dead sia fondamentalmente un racconto di descrizioni, costantemente si avverte il peso del punto di vista del protagonista, Gabriel, i cui ricordi e le cui valutazioni sono un impercettibile contrappunto dell'azione, fino a diventare completamente protagonisti nel finale. Per usare la terminologia di Genette (...) ampiamente adottata nella critica e nella teoria cinematografica, The Dead ha perlopiù una narrazione a focalizzazione fissa e interna (per quanto l'applicazione di tale nozione al film non è priva di legittime problematizzazioni (...), ovvero tutto ciò che sappiamo e vediamo passa attraverso gli occhi e la coscienza di Gabriel. Per certi versi la gradualità di questa focalizzazione che cresce nella parte finale, è un po' il cuore del film, nel senso che solo alla fine scopriamo che la sua drammaticità è generata dal fraintendimento che porta Gabriel a immaginare una errata corrispondenza di stati d'animo con la moglie Gretta e a scoprire (sapere, sentire) qualcosa che riguarda la vita di questa e che è destinato a modificare profondamente il suo punto di vista su di lei. La scoperta di non aver mai visto davvero Gretta, il desiderio di vedere qualcuno come ormai non è più possibile farlo, di vedere un volto che non si può più vedere.
Ma procediamo con ordine. Ad un primo e immediato esame quelle di Huston e del figlio Tony, cui si deve la sceneggiatura, appaiono scelte obbligate e naturali. Entrambi sembrano risolvere la trasposizione su un piano quasi esclusivamente denotativo: la successione delle azioni corrisponde perlopiù al montaggio del racconto, la ricostruzione dell'ambiente è perfettamente verosimile, la sostanza e spesso la letteralità dei dialoghi è quasi sempre conservata. Se devono tradurre in immagini l'ansia di Gabriel per il discorso finale, gli fanno leggere e rileggere il fogliettino con gli appunti e per descrivere la tavolata è d'obbligo un breve carrello. Così come ampiamente rispettata è la prevalenza di campi medi, l'uso molto ridotto dei dettagli che è già nel testo o il ricorso mirato a movimenti ravvicinati e primi piani (la commozione delle signorine Morkan, alcuni momenti del protagonista).
Tuttavia ad una analisi in profondità l'adattamento rivela un'intelligenza ed un progetto decisamente più interessanti. I criteri di fedeltà allo “spirito” del racconto vengono individuati con grande pertinenza. Innanzitutto c'è un lavoro molto raffinato di vero e proprio “trattamento”: le “gaffes” di Freddy Malins, i suoi battibecchi con Mr. Browne sono considerevolmente aumentati di numero rispetto all'originale, nel quale non troverete ad esempio la scena di Freddy nel bagno e neanche il breve e stizzito dialogo con la madre. Così come non troverete l'accenno che la madre di Freddy fa a Gabriel riguardo alla sua delusione nel vederli ora così diversi dopo averli visti crescere insieme. Nel racconto originale non c'è neanche il vetturino che viene da fuori Dublino o il battibecco tra Browne e Freddy, che il primo chiama ripetutamente “Teddy” (come nel racconto).
Sono particolari che compongono il disegno di una trasposizione che agisce direttamente sul piacere del testo e sulla memoria che ne ha il lettore. Si tratta semplicemente di aggiungere qualcosa all'originale, di prolungarne i tratti creando la fittizia soddisfazione di scoprire ancora qualcosa di nuovo nel racconto. Anche per chi conosce piuttosto bene il racconto, è molto difficile notare le aggiunte, le dilatazioni, i prestiti illeciti, perché essi sono praticati in quella sfera intermedia che potremmo chiamare “immaginario” del testo che non appartiene più semplicemente al testo ma al lavoro che il lettore vi ha prodotto con la sua lettura e il deposito di scena che esso ha generato nella memoria del lettore stesso.
È come se Huston padre e figlio si fossero posti di fronte al racconto come ad una topografia narrativa, la piantina di una abitazione, decidendo di trasformarne la fisionomia abbattendo un muro qui, aggiungendo lì una nuova camera, allestendovi nuovi angoli e modificando senza stravolgerlo l'arredamento interno. Lo spettatore più esigente, in simili operazioni, è sempre lo spettatore che ha amato e letto il testo, ed è proprio a questi che l'adattamento sembra aver pensato prima di tutto (anche perché gli autori sono essi stessi i primi rappresentanti di questo tipo di lettore). Dopo aver visto il film a Venezia ero sicuro di aver goduto del rispetto di alcuni particolari (il vetturino che non sa la strada, Mr. Browne ubriaco su di un pianerottolo, alcune battute di Miss Malins) che invece, con grande sorpresa, non ho ritrovato leggendo il racconto per l'ennesima volta.
Ma non meno interessante ed efficace appare l'interpretazione del testo, il rafforzamento delle, linee fondamentali che ne costituiscono il senso.
Nel testo originale non troveremo neanche l'accenno a Verdi, nella discussione a tavola, non troveremo - più ovviamente - il testo della canzone che canta zia Julia, Azzimiamoci per lo sposalizio, e non troveremo neanche la poesia (“false promesse”), recitata da Mr. Grace. Quest'ultima è la prima di tre apparizioni vocali che imprimono all'intero film quel ritmo semplice ma straordinario basato sull'alternanza di azione (dialogo, musica, descrizione dei vari personaggi), e voce che si staglia sul silenzio (prima la poesia di Mr. Grace, poi l'esibizione di zia Giulia, poi il discorso di Gabriel; in realtà il ritmo è ancora più complesso poiché si basa sulla successione di voce recitante - Mr. Grace, Gabriel - e canto - zia Giulia, il tenore Bartell d'Arcy che accenna il motivo che scatena in Gretta la nostalgia e la colpa per l'amante defunto). Per certi versi questo ritmo si spezza proprio nel finale - se si considera il semplice accenno del tenore, una frantumazione di questo ritmo stesso poiché l'ultima apparizione, la più tragica, è quella del ricordo che riporta alla memoria l'immagine del ragazzo che canta sotto la pioggia, e che il film non farà mai vedere (e che il protagonista, come lo spettatore, non ha mai visto). Il motivo del canto, abbinato alla scomparsa, alla perdita definitiva e alla morte, compare in realtà in più punti del racconto, quando zia Julia accenna alla sua voce da giovane, ma soprattutto a tavola, quando si parla - nel film non di meno che nel racconto - della qualità della voce dei tenori del passato, e soprattutto della figura di Georgina Burns, eccelsa cantante morta in gioventù (che è una chiara prefigurazione del ricordo tragico che emerge nel finale). Gli Huston rafforzano questo motivo con un consapevole rafforzamento dell'elemento della voce, sottolineato dal montaggio narrativo del film e dalla sua alternanza di irruzioni vocali e quadri descrittivi in cui si fanno largo, con misteriosa intensità, l'impatto suggestivo della voce che risuona nel silenzio e nell'assenza di rumore dell'esterno dove nevica senza suoni, il ritorno ossessivo e straziante del canto (con una citazione dotta dall'Ulisse, sulle immagini che accompagnano la canzone di Zia Julia, “vecchi ventagli di piume, carnets di ballo, con le nappe, incipriati di muschio, un fronzolo di chicchi d'ambra nel cassetto chiuso a chiave”, sono le reliquie della madre scomparsa come le immagina il giovane Dedalus dell'Ulisse), e soprattutto il monologo finale in fuori campo, in cui la scena è ridotta a paesaggi che si accumulano come neve dissolvendo l'uno sull'altro, e il suono della voce interiore di Gabriel [il ritorno della voce recitante che chiude il discorso vocale: la poesia di Mr. Grace (A), la canzone di zia Julia (B), il discorso di Gabriel (A), il motivo accennato da d'Arcy (B), e quindi di nuovo la voce di Gabriel nel finale (A)], che si sostituisce all'assenza di quella voce che non si può più sentire (il ricordo del giovane amante sotto la pioggia), di quel volto che non si potrà più vedere. Ciò che fa del racconto di Joyce qualcosa di più cruciale di un colto esercizio naturalistico che trascolora in quella drammaturgia dell'ambiguità dello scacco, del fraintendimento, nella cui costellazione potrebbero essere sistemati Pirandello o Cechov, è il punto di partenza, il principio di cui si alimenta: un sentimento banale e irresistibile che rende ciò che accade oggi sempre più piatto e incolore di ciò che è accaduto ieri, l'amore angoscioso per ciò che si è dissolto e consumato e la sensazione che un giorno gli stessi che provano questo sentimento ne diverranno oggetto. The Dead è il canto attonito della perdita e della bellezza di ciò che è morto, la potenza e il dolore della sua voce. |
Autore critica: | Mario Sesti |
Fonte critica: | Cineforum n. 270 |
Data critica:
| 12/1987
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Critica 3: | |
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Data critica:
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Libro da cui e' stato tratto il film |
Titolo libro: | Gente di Dublino |
Autore libro: | Joyce James Augustin |
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