Anni luce (Gli) - Années-lumière (Les)
Regia: | Alain Tanner |
Vietato: | No |
Video: | Biblioteca Rosta Nuova, visionabile solo in sede |
DVD: | |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | Diventare grandi, Storia del cinema |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Tratto dal romanzo "La voie sauvage" di Daniel Odier |
Sceneggiatura: | Alain Tanner |
Fotografia: | Jean-François Robin |
Musiche: | Arie' Dzierlatka |
Montaggio: | Brigitte Sousselier |
Scenografia: | John Lucas |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Trevor Howard (Yoshka Poliakoff), Mick Ford (Jonas), Bernice Stegers (Betty), Joe Pilkington (Thomas), Vincent Smith (Flic) |
Produzione: | L.P.A .- Phoenix – Slotint - Ssr Tv |
Distribuzione: | Ventana |
Origine: | Francia - Svizzera |
Anno: | 1980 |
Durata:
| 105’
|
Trama:
| Inquieto e insoddisfatto, in un futuro prossimo poco invitante, Jonas abbandona la città per raggiungere Yoshka. Una sorta di eremita. Vecchio. Straordinario. Unico. La cui saggezza non ha confini. Ma il rapporto fra l'anziano collezionista ed il giovane apprendista non è facile: anche se Yashka chiederà proprio a Jonas di continuare i suoi studi sul volo. Quando lui sarà morto... Perché non sia tutto inutile. Il suo lavoro. I suoi studi. La sua stessa vita...
|
Critica 1: | Dal romanzo La voie sauvage di Daniel Odier: in un posto sperduto dell'Irlanda, intorno al 2000, un vecchio meccanico, appassionato ornitologo col sogno del volo umano, inizia ai segreti dell'esistenza e della saggezza un giovane, sottoponendolo a una serie di prove apparentemente dissennate. Se si rinuncia alla smania dell'interpretazione, è un film di fascino discreto che, pur monocorde e ripetitivo, possiede l'arte raffinata della modulazione. Il duetto tra il vecchio Howard e il giovane Ford è godibile. Fotografie e musiche suggestive. |
Autore critica: | |
Fonte critica | Il Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli |
Data critica:
|
|
Critica 2: | Riprendendo e aggiornando il personaggio di Jonas che avrà vent'anni nel Duemila, il regista svizzero Alain Tanner racconta un percorso intellettuale. Non solo una riflessione sulla vita del futuro, dove sembra avere senso solo la tenace ricerca individuale. Ma anche una parabola sulla condizione umana attuale.
In un futuro angosciante senza sentimenti, il personaggio di Jonas lascia tutto per andare ad apprendere la lezione del vecchio solitario Yoshka. Da uno dei più celebrati autori svizzeri una suggestiva ricerca interiore che, parlando del domani, racconta la solitudine dell'uomo di oggi. Un film d'autore evocativo ma mai cerebrale, che sa mescolare futuro e presente in una narrazione piena di richiami e di suggestioni. |
Autore critica: | |
Fonte critica: | Sito Rai1-Rai2 |
Data critica:
|
|
Critica 3: | Per esplicita asserzione dello stesso Tanner, Les Années lumière nasce dalle opere anteriori: dalla crisi del '68 e delle ideologie, sentita come punto di non-ritorno. In Messidor, il film immediatamente precedente, lo scacco registrato da Jeanne e Marie rappresenta il vuoto di senso, il dato oscuro che sta in un agire soltanto motivato dal ribellismo e dal gesto gratuito. Ma non si tratta - puntualizza Tanner -, come del resto mai s'è trattato, in Retour d'Afrique o in Le milieu du monde, o anche in Jonas, di uno scacco completo
e irreversibile. Talché all'inizio de Les Années lumière, giusto Jonas, guardando i gabbiani che si librano in cielo, proietta su loro il desiderio di evadere ma anche il carattere di predestinazione che lo accompagna (mentre fuori campo una voce esclama: «libero, come un uccello...»). Les Années lumière è appunto il giornale delle sensazioni e delle scoperte che danno corpo a quell'esigenza. E l'incontro tra il vecchio, cisposo e bizzoso Yoshka Poliakoff e Jonas, arrivato al traguardo dei cinque lustri nell'ormai fatidico 2000, è la condizione che innesca il processo della conoscenza.
Yoshka va a cercare il giovane e questi, sacramentato dalla sua figura ma forse ancor più da quanto egli avverte indistintamente in sé, gli tiene dietro. «Allora improvvisamente», confesserà una volta arrivato in montagna, dove l'uomo vive, «ho capito perché hai bussato alla mia porta e perché io sono qui». Lontano dal mondo e soprattutto dal mondo degradato della città, il novello Emile è pronto ad affrontare il reale: a recuperarlo attraverso il suo corpo. «Ci vuole violenza nella terra... devi diventare la pioggia e il sole», gli dice il vecchio. E Jonas di rincalzo, dopo che si è immerso nel flusso naturale: «Ho visto sorgere il sole e poi ho sentito gli odori della terra che cambiavano... II calore del sole faceva muovere l'erba». Così Yoshka conchiude: «E il tuo corpo cambiava».
II processo - che è entrare nelle cose le più diverse, da una nuvola a un albero - è assai più contrastato di quanto non sembri, a cominciare dai rapporti difficili instaurati tra i due. La realtà, la maieutica di Yoshka, l'educazione delle cose che egli impartisce al giovane, si fonda non già sul disvelamento della verità quanto piuttosto su una sua percezione profonda, cui egli viene spronato dalla durezza di quel modo di vivere, ma altresì dal loro isolamento, da ciò che Tanner ha avuto a chiamare «strana specie di marginalità» dei suoi personaggi.
Stare separati dal mondo delle apparenze è in fatto trovarsi vicini alla soglia di congiunzione con il centro del mondo, le «milieu du monde» per citare il Tanner problematico delle opere anteriori. È esercizio spirituale in senso laico e panico, che consente di impadronirsi della realtà puntualizzando non già l'inappartenenza, la deiezione, il non essere - liberi - per - il - mondo, ma riconoscendo la propria appartenenza al flusso vitale. Ravvisando il complesso nel semplice, il diverso nell'uno, il molteplice e il contraddittorio traverso i ritmi del tutto. «In verità io affermo», sostiene Yoshka nel suo testamento, «ogni corpo è l'universo». Il rapporto tra vecchio e giovane non è la trasmissione delle conoscenze per via diretta. Yoshka vuole che Jonas intuisca dalle cose; per questo lo paga e lo nutre; e lo sottopone a quei tours de force, dalla cui essenza e filosofia discende per lui la capacità di sintonizzarsi con il vero. L'idealità delle opere precedenti - la tensione in esse calata a trascendere il contingente - è ancora positiva e reale. Ma adesso, dopo quella caduta del discorso ideologico che per Tanner significa un maggiore acquisto di esperienze e sapere, essa è in primo luogo, ma fors'anche soprattutto, recupero della fisicità dell'universo, restituito a una vera dimensione nello stesso momento in cui l'uomo sa restituirsi alla propria. Così, allora, il maialino di Jonas ha da essere mangiato, giacché questo è più bello ed è consono ai ritmi dell'esistenza; le cipolle curano le bruciature, come la terra nuda e viva sana le ferite; e Yoshka può rigenerarsi e guarire standovi immerso per tre giorni e tre notti, dopodiché guizza fuori vispo e rubicondo più di prima.
Una delle accuse - o rimostranze - mosse a Tanner a proposito di Les Années lumière, è stato il divario tra ciò che nel film viene fatto dire ai personaggi, e quel che in concreto è mostrato. II che, se è vero, lo è solo in parte: se mai comepeso suppletivo del testo di Odier. A noi pare comunque che il dialogo del film non sia sottrazione d'immaginario al nucleo fantastico di fondo, una sua riduzione sino al punto di spicciolarlo per quel pubblico cinematografico che diversamente non lo capirebbe.
La parola è invece, nel film di Tanner, intanto una sorta di racconto dell'attraversamento del limite; o meglio il resoconto dei tentativi per andare al di là dello stretto apparente e dell'inessenziale. E il film descrive questo itinerario, ne fa in altri termini percepire i dati sensoriali e fisici; in rapporto sia ai personaggi (l'uragano goduto, vissuto, meglio avvertito dentro l'automobile che in casa), sia all'insieme della rappresentazione: il respiro, ad esempio, semplice e possente dell'universo tiene corte senza inconvenienti e direi mediazioni nella inquadratura dei paesaggi: coi campi giallo - marroni che si perdono a vista d'occhio, gli specchi d'acqua, la nebbia, le nuvole che oscurano e pezzano le colline, il cielo azzurrino e sfrangiato. Oltre che col dire, Tanner dissigilla la vista agli spettatori anche con le immagini. Non che ne Les Années lumière si pregi la disposizione a rimarcare la bellezza della natura non altrimenti che nei termini indispensabili. Il paesaggio del film di Tanner non solo è penetrato dei più sottili riferimenti (ivi inclusa una patente derivazione onirica, si veda la sequenza del sogno), ma è esso stesso costruito in un tale stato di grazia, e secondo un così preciso intendimento, da configurarsi come spazio ambientale e vitale, disciolto da ogni vincolo di referenza. La strada che solca il terreno e in prospettiva si dirama all'infinito è quella stessa da alba del mondo che bene si congiunge con l'energia metaforica dell'apologo. O ancora, per portare un altro esempio forse però troppo confacente al ricalco mimetico, il giovane che risale il crinale della montagna per catturare l'aquila ed è riquadrato di profilo e di lontano, è una sottolineatura, in gran parte involontaria, del senso verticale del film e di quel movimento verso l'alto che è l'ascesa alla luce di Jonas, per ripetere la metafora già implicita nel nome e nel film precedente, dal ventre della balena: il montare al miraggio dalla superficie del mondo. II paesaggio, insomma, non è un mero dato designativo: ma parte essenziale del discorso di forma del film, di quel suo spaziare e muovere dal tempo della natura sentito come logos dell'autentico a quel tempo del mito che è la decifrazione, l'avvicinamento o anche soltanto una roridità di memoria di ciò che tuttora permane inconosciuto (...).
Lo sguardo guidato sul mondo e sulla natura circostante non è più ormai di constatazione: è al contrario una singolarissima decrittazione, o possibilità di decrittazione, da cui desumere ciò che sin là era apparso ignorato e non-visibile: una esperienza e una interrogazione della materia avanti tutto al suo livello fisico e sensoriale, per andare alla volta - per il suo tramite - dell'utopia. Per questo Tanner può dire che non è per lui questione né di riprodurre e nemmeno decostruire la realtà che ha di fronte, piuttosto invece di riconnetterne i frammenti inevasi e poi ricomporli. Lo scenario, vuoi naturale vuoi umano, de Les Années lumière è così di fondamentale importanza, ma esso non è mai una foto della realtà.
Il visibile, il detto, il plot, rinforza e impolpa il capitolo centrale dell'opera, ma il film autentico sta in quella proiezione di immaginazione e attesa, di passione e puntiglio che non è reperibile negli eventi di superficie, nei personaggi, nella trama dialogica, quanto nel tessuto di emozioni da cui tutto questo è sotteso.
Allora, contano più che mai i problemi di stile. Già la dimensione del mito, così come essa si configura ne Les Années lumière, tende a esulare dall'altra coordinata del tempo definito sperdendosi nella metafisica; se si vuole, in quello stesso rischio di gratuità in cui può adunarsi l'ontologismo del linguaggio, quando essa pretenda, di per sé solo, col suo solo darsi, di raggiunge l'essere. È la trappola in cui sono naufragate miriadi di nipotini di Heidegger, dimentichi dei problemi dell'arte. Ma non è il caso di Tanner: che tallona sì la sua verità (sulla quale pure si può dissentire, ancorché poi si tratti di una censura ideologica), ma che sa di poterla raggiungere e comunque cercare solo nel racconto attivato dalla messa in forma. E così lo stile a operare qualcosa di fattivo e tangibile verso il limite dell'irragiungibile. Montaggio, durata del piano, rilievo semantico delle inquadrature: questi gli elementi col mezzo dei quali viene ad ordinarsi la struttura di Les Années lumière. Intanto, c'è un numero di scene (260-270) superiore di un quinto circa ai film precedenti. E questo in ragione del rilievo assunto dal décor, del valore d'infinito potenziale che s'accompagnerebbe al suo finito, l'immaginario e il desiderato che stanno al di là di ciò che già si possiede. I piani sono esatti, semplici, mai sfioranti la maniera e lo stucco. Pochi i movimenti di macchina, ma in ogni caso tali da sottolineare il carattere di naturalezza e di sguardo indagante: così i travelling in avanti, rari in vero; o le panoramiche, quella ad es. che segue Yoshka mentre esce dalla propria casa, - Jonas sta lavorando, sta ancora nel prosaico -, e ne coglie l'aspetto strano e inquietantemente poetico; o il PP del volto del vecchio che beve, cui una particolare angolazione dell'obiettivo conferisce un rilievo di sfuggita e sfuggente estenuazione. In quest'ultimo esempio, si è in presenza di un correttivo che accentua un filamento stilistico. Ma, in definitiva, la lingua e lo stile agiscono per deprivare di esteriorità i materiali su cui il regista lavora, colti nella piena evidenza dei particolari e degli elementi primari ma poi ben presto tradotti nell'imposto semantico di un relativo sommesso d'attesa, che attende da un bagliore, dal déclic di un momento, dall'illuminazione radente, di girare all'unisono con la ruota e i barbagli dell'assoluto. Il rischio - dilatandosi i tempi di svincolo e i passaggi morti - è che nulla poi in fatto intervenga. Ma è giusto qui che s'affaccia il rigore del cineasta: che sa sovrapporre a una certa indistinzione delle cose l'impianto spiralato del film (con giù al fondo il proliferare del desiderio, e in vetta l'illusione). E sa poi concentrare nelle proprie immagini una tale tensione (o libido sentiendi) da derivarne - interrogandole con la mente ed il corpo, e sintonizzandosi infine con esse - il sapere nascosto e cercato. Inutile dire che l'esperienza - dell'autore, ma anche dello spettatore - non si limita al riscontro dell'empirico o dell'asserto di una qualche mistagogia, ma invece è commista dell'aggiunta irrevocabile del piano stilistico e connotativo. Citeremo al proposito le bordure di terriccio e il profilo dei campi, che rimontano per affinità a certe suggestioni della pittura contemporanea, ad es. la land art; o il carattere simbolico e più apertamente straniato del mucchio di lamiere lucidate e brillanti, che dànno a loro volta verso l'iperrealismo e che configurano, in margine al respiro della natura, una beckettiana dispersione di senso. O ancora il valore essenziale e struggente della musica, che immette nel film traversoni d'ansia però intessuti di intrinsichezza fonetica. Ma, infine, è tutta la capacità di Tanner di modificare per tocchi impercettibili le evidenze di superficie, di scrostare dalle immagini, dalle voci, dalle situazioni, la ruggine del convenzionale. Ma questo senza effondersi in finiture audaci e perigliose, fuori dal normale: senza complicare e ibridare la messinscena, e comunque senza abbandonare lo statuto della finzione. Tutto scorre filato e calmo: ma è come se l'immaginario si sovrapponesse al piano delle cose concrete, che restano tali pur avendo in sé irrelata e potenziale la pienezza della natura.
È fuori discussione che non tutto funzioni nel modo voluto. O almeno non tutti i dettagli, con le sovrammesse intenzioni, si avventano all'occhio. Pesa ad es. su Les Années lumière la consecuzione delle sue problematiche con i luoghi comuni della nostra epoca; e pesa ancora una sostanziale ambiguità, che nel film è non-scelta, indecisione, apertura sul possibile, ma anche irresolutezza espressiva. Jonas alla fine non volerà, accetta di stare sulla terra traducendo in essa l'eredità di Yoshka. Scorgendo l'aquila esclama sì «Ti vedo»!, e sa o crede (un po' come Tanner) di aver compreso e intuito l'essenziale. Ma forse lui pure volerà: questo il film non lo dice. La sequenza finale non ha insomma quella appropriatezza metaforica che le avrebbe consentito di veicolare una tale duplicità, o ricchezza di senso. Essa ha però la sensucht sottile di qualcosa che si aspetta e non si vede: il solo evocare I'«altrove» è infatti una tale emozione, che la cinepresa sussume lo spazio comprendente Jonas e l'aquila con una lunghissima e alata panoramica. Una sorta di intima sostensione che ci dice come Jonas non abbia dimesso l'intento di far rotta per qualche altro porto. Questo accade anche agli spettatori? In parte indubbiamente sì. La forza del film resta comunque inalterata, tuttoché inindabagile sino in fondo, affidata alla sensuosità ma poi anche all'interiorità quasi animistica dei suoi personaggi e degli oggetti, in ultima istanza del racconto. E ciò che si chiama dispositivo dello stile e delle sue soluzioni ad intervenire sul codice - territorio del film. Dando l'impressione o la suggestione di quel di più che Alain Tanner definisce utopia e che altri potrebbero definire punto di unione di tutti i movimenti e flussi, della natura come pure dell'animo umano. Ma quella suggestione potrebbe poi non essere altro che infingimento, ancora una volta la costruzione di un'affabulazione che incantando gli uomini rimuove per ciò stesso l'angoscia e l'impermanenza (o il senso concreto, trattandosi di un regista svizzero, dell'alienazione elvetica). È questo il rovescio della felicità de Les Années lumière, il risvolto probabile della sua carica di mito e divinazione. L'aquila che attende sibillinamente Jonas può infatti evocargli e evocarci la comunione panteistica col creato, raggiunta o da raggiungere: ma essa è poi anche l'indistinto che ambiguamente si accentua dalla realtà. |
Autore critica: | Gualtiero De Santis |
Fonte critica: | Cineforum n. 223 |
Data critica:
| 4/1983
|
Libro da cui e' stato tratto il film |
Titolo libro: | |
Autore libro: | |
|