Notte di San Lorenzo (La) -
Regia: | Paolo e Vittorio Taviani |
Vietato: | No |
Video: | Db Video, Fonit Cetra Video, Nuova Eri, L'Unità Video |
DVD: | |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | La memoria del XX secolo |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Tonino Guerra, Paolo Taviani, Vittorio Taviani |
Sceneggiatura: | Tonino Guerra, Paolo Taviani, Vittorio Taviani |
Fotografia: | Franco Di Giacomo |
Musiche: | Nicola Piovani |
Montaggio: | Roberto Perpignani |
Scenografia: | Gianni Sbarra |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Omero Antonutti (Galvano), Claudio Bigagli (Corrado), Massimo Bonetti (Nicola), Dario Cantarelli (Il Prete), Sergio Dagliana (Olinto), Giuseppe Furia (Requiem), Paolo Hendel (Dilvo), Margarita Lozano (Concetta), Laura Mannucchi (Sig.Ra Naldini), Norma Martelli (Ivana), Rinaldo Mirannalti (Avv.Migliorati), Enrica Maria Modugno (Mara), Franco Piacentini (Padre Di Nicola), David Riondino (Giglioli), Massimo Sarchielli (Marmugi Padre), Mario Spallino (Bruno), Sabina Vannucchi (Rosanna) |
Produzione: | Rai Radiotelevisione Italiana, Ager Cinematografica |
Distribuzione: | Cineteca dell'Aquila |
Origine: | Italia |
Anno: | 1982 |
Durata:
| 105'
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Trama:
| Il film è ambientato nel 1944, in un'ondulata campagna toscana, percorsa dai brividi e dal terrore delle ultime fasi della "guerra di liberazione", con i nazisti sullo sfondo, lo scontro partigiani-fascisti, prima incombente, poi esplosivo, e, - in primo piano - la tragedia corale di una popolazione inerme, in parte vittima di un feroce massacro, ma in parte (la più fiera e indipendente) in marcia verso la libertà. (...) Il gruppo guidato da Galvano, dopo un esodo segnato da lunghe paure, brevi parentesi di serenità, momenti di orrore e di violenza cruenta, approda quasi incredulo, alla libertà. Dopo di che la cinepresa ci fa entrare da quella finestra aperta, inquadrando una figura femminile ancora intenta a narrare a un bimbo, come in una cantilena da ninna-nanna, l'altra terribile ed epica "notte di S. Lorenzo".
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Critica 1: | Favola generosa di molte bellezze tra cui le immagini che come le rondini passano in folla, in continua oscillazione tra ricordi personali e memoria collettiva, cronaca e fantasia, epica ed elegia. Premio speciale della giuria a Cannes. |
Autore critica: | |
Fonte critica | Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli |
Data critica:
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Critica 2: | Il cinema dei Taviani, notoriamente, non è mai “semplice” né aspira, in fondo, a sembrarlo: si costruisce, all'opposto, su svariati livelli di una minuziosa stratificazione espressiva, in una gamma assai articolata di suggestioni e assimilazioni. Tale costante, perspicua anche nei film più “lineari” (che sono poi quelli girati con Orsini) è venuta accentuandosi coi passare dei tempo. Proprio San Lorenzo, dietro il suo primo impatto di opera “ingenua”, “istintiva”, in qualche modo in deliberata chiave infantile, attinge il livello di maggiore complessità e ricchezza della mescolanza. Questo porta, ovviamente, a un alto grado di contraddittorietà interna, che ne costituisce nel contempo, com'è inevitabile, il fascino e il limite, e che può forse rappresentare la chiave, almeno parziale, degli atteggiamenti contrastanti assunti nel giudicarlo.
“Non ci ritroviamo” avevano scritto i Taviani quando lavoravano a Un uomo da bruciare “nei furori sentimentali dei neopopulismo, nelle consolazioni della mitologia politica, e nelle allegorie magiche della incomunicabilità”. Quando tali propositi vengono rispettati, il loro cinema finisce per funzionare; allorchè una componente di sollecitazione emotiva dello spettatore ha il sopravvento, ciò si verifica meno. Tale spinta emotiva, ne La notte di San Lorenzo, è tutt'altro che secondaria: e questo finisce per accentuare un'irresolutezza di fondo che mina il pur esteriormente compatto insieme narrativo, cui l'intervento di Guerra in sceneggiatura fornisce forse una maggior connotazione “contadina” appunto.
La soluzione “distanziante” del racconto fatto al passato da Cecilia, e garantito attraverso la sua testimonianza d'infan-zia, è nel complesso efficace, ma viene talora dimenticata. Troppe pagine del film si svolgono in assenza del suo sguar-do stupefatto e suscitatore di meraviglia; e tutte quelle in cui tale mediazione è assente (il corteggiamento della ma-dre da parte di Dilvo nel campo di angurie; il rapporto a di-stanza tra Galvano e Concetta fino all'epilogo; il folto grumo narrativo incentrato sui rapporti fra Rosanna, il fratello Ni-cola e Bruno, ad esempio) ancor che spesso molto belle, co-me la scena della fetta d'anguria, o le dolci impazienze ero-tiche di Rosanna, finiscono per risultare “diverse” dall'im-pianto di fondo del film e, in qualche modo, meno facilmen-te “giustificabili”. Come, all'estremo, tutto l'episodio di Ma-ra la siciliana (che non è, per la verità, altrettanto felice e “necessario” nel suo sviluppo) e la stessa vicenda, invece superbamente risolta in sè, della cattedrale e della sua mici-diale esplosione.
I Taviani hanno motivato la scelta narrativa del ricorso alla figura della bambina in modo preciso e teoricamente convincente: “La memoria e l'autobiografia sono un grande patrimonio per l'autore, ma l'autobiografia può anche essere pericolosa. È necessario un diaframma tra l'esperienza vissuta e la sua messa in scena. Allora abbiamo pensato a un cambiamento di sesso. E ci è sembrato necessario che il racconto venisse fatto da una donna al suo bambino”.
Da questo anello nasce, come in San Michele, il ricorso a una filastrocca infantile popolare, iterativa e apotropaica, che viene insegnata dalla giovane madre, trepida e incosciente insieme, alla piccola Cecilia (...)
La bambina prenderà a ripeterla, inconsciamente, nel pericolo, fino al momento supremo della battaglia. Ma solo da adulta, sembrano voler commentare gli autori, si renderà conto autenticamente dei rischi corsi, del raccapriccio e dell'orrore attraversati. Oppure dei ben maggiori, nonostante, tutto, pericoli del presente, dai quali preservare il figlioletto. Ed ecco Cecilia - bella intuizione - ripetere improvvisamente la formula da adulta, alla fine dei film: per la prima volta non più con incosciente allegrezza, ma con la gravità meditata del timore. (...)
L'introibo dei film, è stato notato con doverosa facilità, è davvero sotto il segno del nitore straubiano: l'inquadratura statica del pero da cui, dopo il rombo e col vento, cadrà il frutto, e quindi il concitato e dignitosissimo matrimonio, impaginato in una prospettiva “povera” e giottesca, hanno una freschezza forte e uno staglio che proseguono intatti fino a quel grosso “colpo di cinema” che è l'attesa delusa, determinata dall'inganno dei disco americano, la cui musica sembra ormai preludere all'agognata liberazione.
Ma dai boschi che circondano il paese, angosciosamente scrutati in panoramica dall'occhio della camera, non uscirà nessuno, nonostante, dalla visionarietà catartica dell'attesa, vengano già fatti sventolare foulards multicolori di benvenuto. Un altro grande fazzoletto nero, di lì a poco, nel centro dei paese deserto, cadrà sul viso di Nicola che corre al rifugio coi familiari, icastico presagio, tra il reale e il “fantastico”, della sorte dei singoli e della collettività. Per tutto il film, di fatto, gli americani saranno “presenti” ma non mai visibili, tranne che nel tragico miraggio di Mara morente, e nell'incontro “magico” (giudicato visionario dagli adulti, ma vero: lo attesterà il pacchetto di sigarette abbandonato sotto la croce) di Cecilia e dell'altra bambina allontanatesi momentaneamente dal gruppo, poco prima dello scontro finale.
Tale forza si mantiene, ma già con un altro segno, meno rattenuto e fermo, più “drammaturgico” e costruito, nelle sequenze, peraltro in sè “belle”, dove predomina la sensualità. È il caso dei ragazzi che si eccitano festosamente spiando la bella Mara, e che naturalmente arrivano per direttissima dal panerotismo “universale” dei pastorelli di Padre padrone; di quella già ricordata fra la madre di Cecilia e Dilvo; del bagno dei fuggiaschi, che è probabilmente la sequenza più “felice” e coerente dell'intero svolgimento, almeno quanto la mirabile ma forse troppo ambiziosa battaglia nel grano. Lo stesso amore finale fra Galvano e Concetta, per quanto preparato e motivato con insistenza, costituisce vistosamente lo sviluppo più esterno e accessorio dei film, nonostante l'estrema attenzione con cui è affrontato. Ma se di qualcosa il cinema dei Taviani alla lunga soffre, è proprio questa estrema e troppo appariscente attenzione rivolta alla sottolineatura espressiva, quasi supersignificante, di ogni anche minimo particolare: allo spettatore, contrariamente ai propositi, i fratelli finiscono per non lasciare, negli ultimi anni, troppo lavoro...
Alla chiusa della pioggia purificatrice, la narratività verbale di Cecilia acquista cadenze quasi bibliche (“Per tre ore ancora rimase Galvano nel paese, solo e con molti pensieri, mentre noi tornavamo verso la nostra San Martino”), e quella coralità festevole e liberata sull'aia fa tornare alla mente in misura troppo fastidiosamente ravvicinata i fasti hollywood-populisti dei finale di Novecento. A quel film, questo si approssima, del resto, anche per una certa qual rappresentazione tra localistica e mitizzante del fascismo agrario “cattivo”: la coppia del padre e figlio assassini, che gli autori avvertono essere ispirata a figure reali, sono nettamente assimilabili alla coppia Regina-Attila di Bertolucci: e come loro, fanno fare atroci fini, finchè non ne fanno una peggiore.
La letteratura e la tradizione anche cinematografica sulla resistenza, dei resto, sono trascorse sotto gli occhi dei Taviani con buon profitto. La felice scena della corriera vagante, attorniata da militari tedeschi impazziti, con accompagnamento wagneriano, riprende e approfondisce, in certo senso, l'atmosfera di sfatta follia criminale e di domestica crudeltà quotidiana de L'ultimo giorno di scuola di Baldi. La bella figura di Rosanna, immatura e narcisista, impaziente e crudele senza volerlo, rinvia con immediata vividezza a certi personaggi femminili del Fenoglio maggiore (...).
D'altra parte, risulta molto evidente l'intento di ricollegarsi all'attualità, alla concretezza visiva di un oggi dilacerato e invivibile. Emblematica, da questo punto di vista, la sequenza dell'esplosione nella cattedrale e dei successivo fuggi fuggi delle persone scempiate, che riporta alle troppe immagini analoghe degli ultimi anni, da Milano a Bologna, come il successivo, duro rifiuto dell'autorità - il vescovo: un'indovinata figura di ossuto e febbrile presule, che ricorda anche nell'aspetto le ambiguità del pontefice di quegli anni, tra la diplomazia coi nazisti e la sortita del bombardamento di San Lorenzo - da parte della madre di Bellindia, al termine di un disperato e muto fissarsi negli occhi, cranio contro cranio (“Fo da sola... fo da,sola!”).
L'intero film è materiato da una fittissima tessitura di inserti-reminiscenza, visioni anticipatrici illusorie, rivelazioni a posteriori, ricordi-immaginazioni: nel l'inquadratura conclusiva, si rivelerà allo spettatore che l'“amore mio” cui Cecilia parla è il suo splendido infante. Quanto non c'è, viene anticipato dal fantasticare struggente dei desiderio (la liberazione incarnata dagli americani, appunto) o dissepolto a posteriori dalle reticenze traumatiche della memoria: anche Corrado era presente alla morte di Bellindia e aiutò disperato a trasportarla; ma lo vediamo solo quando assume, da partigiano, il nome che era di suo padre e sarebbe stato di suo figlio, Giovanni. Talora i presentimenti sono di tipo analogico: i cani rinchiusi e i fedeli che nell'ansia di salvarsi scelgono di andare a fare la fine di topi, magari all'ultimo momento; talaltra la narrazione si sofferma sui pensieri, e resta in bilico, perigliosamente, tra verità, artificio e retorica. “Vera” è indubbiamente la sequenza notturna della distruzione dei paese, con l'attesa nel buio del l'esplodere delle case e le chiavi gettate o conservate; tende già all'artificio la lettura verbale dei pensieri dei personaggi in quei momenti; è irrimediabilmente retorica, pur nel suo pulsante vibrare, la “pentecoste” montata alla Ejzenstejn in cui i nuovi adepti della lotta armata, alla presenza di Dante, sì cambiano il nome.
L'ordito narrativo ha come sostegno la costante ricerca di una dimensione epica, ma letta in chiave infantile, quale è anticipata appunto dalle citazioni omeriche del vecchio e tanto oggettivata in momenti della vicenda (l'incontro tra Galvano e il fascista Donati, esemplato, nella ritrovata neutralità dell'approccio col nemico appartenente a famiglia “ospite”, su quello di Glauco e Diomede nel dell'Iliade) quanto “soggettivante” nel ritornare al ricorrente sguardo e all'accesa immaginazione di Cecilia: la camicia nera, che ha appena assassinato il vecchio, è secondo lei presa d'infilata dal diluvio di lance degli eroi iliadici evocati dal ricorso allo scioglilingua. (...)
Ancora una volta, tanto nelle sue novità (relative) quanto nelle sue ricorrenze (solide e consistenti fino all'istituzionalizzazione, a cominciare dal ruolo privilegiato riconosciuto, come in ogni film, all'infanzia), il cinema dei Taviani si conferma basato su di una pur straordinaria ricchezza di intuizioni puntuali, ora felici ora meno (si può spaziare retrospettivamente dalla neve nei bicchieri di Padre padrone al mandare la figlia di Rossellini a vedere Paisà nel Prato) che, se possono dare luogo a un'assai vasta antologia di sequenze memorabili e citabili, fanno talora correre il rischio di pervenire a sintesi apparenti ma non unitarie, proprio in ragione del prevalere di un rovello chiarificatore ed esplicativo troppo analitico. |
Autore critica: | Nuccio Lodato |
Fonte critica: | Cineforum n. 219 |
Data critica:
| 11/1982
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Critica 3: | |
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Data critica:
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Libro da cui e' stato tratto il film |
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