Ragazza di via Millelire (La) -
Regia: | Gianni Serra |
Vietato: | No |
Video: | Biblioteca Decentrata Rosta Nuova, visionabile solo in sede |
DVD: | |
Genere: | Drammatico - Sociale |
Tipologia: | Disagio giovanile, Migrazioni |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Tomaso Sherman, G. Serra |
Sceneggiatura: | Tomaso Sherman, G. Serra |
Fotografia: | Dario di Palma |
Musiche: | Luis Bacalov |
Montaggio: | Maria Di Mauro |
Scenografia: | |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Oria Conforti (Betty), Maria Monti (Verdiana), Mario Orlando, Lisa Policaro, Lucia Sturiale, Fernanda Ponchione, Francesco Pugliese, Silvana Lombardo, Umberto Campanile, Andrea Alciata |
Produzione: | Rai Rete Due TV |
Distribuzione: | Non reperibile in pellicola |
Origine: | Italia |
Anno: | 1980 |
Durata:
| 119’
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Trama:
| Primi anni Ottanta. Betty Pellegrino è una tredicenne allontanata da una famiglia ormai in frantumi. Nella degradata periferia di Torino frequenta adolescenti e giovinastri che vivono alla giornata tra furti, violenza, droga e prostituzione. La ragazzina va e viene tra un istituto di Ivrea cui è stata affidata e il centro d’incontro torinese di via Domenico Millelire, animato con grande volontà ma con scarsi mezzi dall’assistente sociale Verdiana e da alcuni altri educatori alle prese con casi più o meno disperati. Betty si innamora di un giovane più grande di lei, che tuttavia intende soltanto sfruttarla sul piano sessuale. Di lei abusano anche altri ragazzi del quartiere. La sua unica speranza è Verdiana, l’operatrice del centro d’incontro.
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Critica 1: | L’ambiente in cui si svolgono gli eventi è quello della periferia tipica di una grande città dell’Italia settentrionale. Si tratta del quartiere-dormitorio di Mirafiori Sud, nella Torino dell’immigrazione operaia, e in particolare di una piccola via che diventa il luogo simbolo della degradazione metropolitana. Una periferia fatta di abitazioni che sembrano enormi caserme, con le finestre piccolissime, di lande sterrate e polverose che non sono state ancora asfaltate, di misteriosi edifici di cemento mai portati a termine, di bar anonimi in cui le serrande sono perennemente abbassate. È in questo contesto che si è svolta la lunga fase del reperimento sul campo delle testimonianze di vita da parte di giovani disoccupati, disadattati ed emarginati. Testimonianze che hanno costituito la materia del film. Il personaggio di Betty è il filtro narrativo attraverso cui viene presentata allo spettatore la squallida realtà della periferia torinese in cui si muovono anche le altre figure. Una situazione che non riguarda soltanto i figli degli immigrati, ma anche quelli degli abitanti per così dire autoctoni, come sottolinea ironicamente Betty in una famosa battuta del film. Betty è infatti una dei dieci figli di una venditrice ambulante e di un pregiudicato torinese, schedato come alcolista cronico.
L’assistente sociale Verdiana attribuisce le colpe di una tale situazione a un sistema economico interamente basato sul consumismo, a uno sviluppo senza progresso in cui alcuni gruppi sociali sono destinati a ricoprire un ruolo di assoluta subalternità. Betty è intelligente, vispa, ha sempre la battuta pronta. Anche per questa ragione possiede una forte consapevolezza del proprio ruolo sociale, tutto basato sulla visibilità del proprio corpo. Betty afferma che la società sono quelli come lei che lavorano per gli altri e intanto ammicca masticando il chewing-gum, lasciando intendere l’inesorabile destino che l’attende come bambola intrattenitrice di maschi coetanei e della sua stessa condizione. Una sorte cui Betty sembra ormai rassegnata, soprattutto dopo che è stata vittima della violenza sessuale compiuta da personaggi che si muovono nello stesso clima di desolazione materiale e morale.
La sua sola compagnia è rappresentata da una radiolina portatile: le sue crisi di solitudine appaiono come l’effetto di un forte sgretolamento sociale (da qui il significato della nascita di strutture quali i “centri d’incontro”, come quello di via Millelire, che rappresenta il primo caso nel tessuto torinese). Alla fine, infatti, il suo unico punto di riferimento sicuro resta la rappresentante dell’assistenza sociale Verdiana, colei che è riuscita meglio a rispondere ai suoi bisogni e che, diventando una sorta di surrogato della figura materna, è puntualmente in grado di trovarle un rifugio, una pausa di riposo e di riflessione. Nel film spicca un curioso linguaggio, prodotto dallo storpiamento di alcuni termini del dialetto piemontese e dal mescolamento con altri di origine meridionale: la ripetizione ossessiva di interiezioni come “diofà”, “madò”, “cacchio”, “minchia”, “picio”, la povertà sintattica delle frasi, l’assenza di concetti, il prevalere del gesto sulla parola nella comunicazione quotidiana, intendono riflettere il drammatico abbassamento delle capacità di rielaborazione logica e degli slanci vitali da parte dei personaggi. Un tale disfacimento dei dialetti e della cultura originari non viene accompagnato da alcun modello alternativo di rifondazione linguistica e culturale. |
Autore critica: | Umberto Mosca |
Fonte critica | Aiace Torino |
Data critica:
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Critica 2: | AI di là di tutto questo, La ragazza di Via Millelire sembra fatto apposta per rinfocolare le polemiche, annose e inconcludenti, già trionfanti intorno al '68, tra i fautori d'un cinema «d'impegno» polemicamente insofferente nei confronti d'ogni presunto estetismo, e quanti sono ad esso refrattari, ritenendo illusoria l'acquisizione d'ogni risultato che non transiti attraverso la complessità inevitabile d'una mediazione stilistica maturata e consapevole. Il confronto tra le due tesi, come sempre accade in simili occasioni, è in realtà del tutto sterile: le premesse non collimano, i piani di discussione sono diversi e non intercomunicanti, le conseguenti tesi destinate a divergere in eterno, come del resto accade in ogni querelle storica che si rispetti. Cosí ciascuno, la pensi nel primo o nel secondo dei modi (tra questi ultimi confessa, quand'anche sempre più perplesso, di continuare ad annoverarsi chi scrive) seguiterà, come ormai inesorabilmente accade nella fase presente, a procedere solo per la sua strada.
Dietro tale questione, però, sta una volta tanto anche un'occasione concreta: quella d'un'ulteriore possibilità di verifica del senso reale - praticato, cioè: le rare volte che accade - dei prodotti originali dal fenomeno che a suo tempo fu designato e preconizzato come «nuova committenza». Dal '75 a oggi, infatti, altri film come Nessuno o tutti di Bellocchio e altri, Alcool di Augusto Tretti, Panni sporchi di Giuseppe Bertolucci, e prima ancora Fortezze vuote dello stesso Serra - per limitarsi ai titoli in qualche modo più contigui alla Ragazza - hanno avuto origine dal motivato sforzo produttivo di enti locali, o di forze politiche e sociali (la giunta di sinistra torinese e lo stesso sindaco Novelli, lo si ricorderà, furono coinvolti direttamente nelle polemiche veneziane, e una prefazione di Novelli è proposta alla sceneggiatura pubblicata). (…)Tratto fondamentale de La ragazza di via Millelire (come di non poche analoghe operazioni precedenti), la particolare accentuazione dello iato intercorrente fra intenzioni ed esiti. Da una parte, indipendentemente dalle contrastanti, e volonterosamente avallate, dichiarazioni dell'autore sull'antinaturalismo, risulta particolarmente vistosa in assai larghi brani del film una tendenza (di fatto «ingenua») a catturare «la vita com'è», in una chiave che finisce, all'interno d'un'elaborazione deliberatamente «antidocumentaria», per farsi quasi documentaristica: ciò si verifica soprattutto, ed è comprensibile, allorché ci si sposta dalle vicende dei «personaggi» singoli al corale rispecchiamento d'un maggior numero di presenze. D'altro canto, dove la direzione risulta manifestamente quella contraria, gli sbocchi non sono necessariamente più felici: difficile, ad esempio, con tutta la migliore volontà, sostenere motivatamente che appaia plausibile - tanto ove ci si voglia immedesimare nell'eccezionalità d'un'emergenza dirompente, quanto essere «straniati» attraverso un'accumulazione eccessiva di dati omogenei - l'allucinante esibizione ininterrotta di handicaps, tic, menomazioni e singolari particolarità d'ogni genere che pare disperatamente costituire l'unico orizzonte antropico possibile nell'ambiente. Non s'intende sottovalutare né tanto meno irridere, va da sè, i risvolti reali d'una situazione regressiva disperata e probabilmente, nei fatti, irreversibile: ma sottolineare come un livello talmente alto di concentrazione finisca talora per far scaturire, in chi guarda, reazioni d'incredulità o peggio di ilarità, certo ingiustificabili ma in qualche misura comprensibili (proprio in ragione dell'estrema gravità del rappresentato rispetto ai modi di rappresentazione: non credo che di fronte a Las Hurdes o a Freaks ciò si verifichi).
Si finisce infatti talora per avere la sensazione d'essere di fronte alle scene d'un disperante teatrino dell'assurdo (si pensi a tutto il rapporto di Betty con l'aspirante sfruttatore, il cui eloquio pare rimandare più a certi parlati di Abatantuono o altri comici dei genere, che ad altro) che riesce comunque a coinvolgere razionalmente, oltre che emotivamente, lo spettatore riguardo alla realtà mostrata: nella comune coscienza, sia chiaro, che lo sfascio e la disgregazione delle realtà cui ci si riferisce siano davvero «cosí»; ma senza che ciò possa far escludere la non rispondenza di determinate scelte agli obiettivi. Accade in tal modo che il film riesca a vivere e ad attirare soprattutto grazie all'individuazione di «personaggi», appunto, il cui prendere corpo con un certo vigore finisce per tagliare l'erba sotto i piedi alla rilevanza del quadro complessivo: quanto più infatti essi riescono a risultare complessi e credibili (come nel caso di Betty, di Verdiana, di Tonino: quelli insomma cui Serra concede la possibilità e lo spazio di «farsi un nome» singolo e ben stagliato sull'insieme del racconto), tanto maggiormente, nell'oscillare del film fra «verità» e «fiction», finiscono per divenire cartine di tornasole della precarietà della visione d'insieme.
Sono valutazioni già ripetutamente emerse, negli ultimi anni, in svariate occasioni, specie da quando molte illusioni sulle possibilità di uso «militante» e «diretto» del linguaggio filmico hanno dovuto fare i conti con la realtà. Altri tentativi; in fondo meno smaliziati, contrariamente alle apparenze, di quello di Serra, di rapporti o indagini su realtà proletarie o sottoproletarie presentati in forma di vicenda (Trevico-Torino o addirittura La classe operaia di Petri in un senso, per non arrivare al Godard e Gorin di Crepa padrone; certi film minori d'impianto vagamente pasoliniano sulle borgate romane in un altro) lo avevano già dimostrato: più si abbandonano determinate piste di mediazione o di metafora, più i margini di manovra rischiano di restringersi. Tanto più che, con saporito paradosso, in determinati casi la fiction è riuscita a risultare più «autentica», quand'anche dichiaratamente ed esclusivamente costruzione spettacolare, proprio in termini di «verità» complessiva, rispetto a tentativi assai rispettosi della stretta «verosimiglianza». II significato complessivo, in termini politici, dell'affresco ambientale tracciato da una commedia all'italiana scopertamente «commerciale» quale Lo scopone scientifico, ad esempio, finisce per denotare una forza di penetrazione e una sostenibile consequenzialità, ignota a molti rigidi e seriosi réportages. Laddove al contrario, come osservava Ferzetti per questo film, «i sottoptoletari presi ‘dalla strada', a dispetto della loro violenta devianza, finiscono col ricordare sia pure alla lontana i loro cugini in technicolor 'brutti, sporchi e cattivi'».
Per una concatenazione di effetti non ignota all'esperienza, una verità troppo insistentemente «vera», indipendentemente dagli intendimenti che l'hanno originata, finisce per sortire il risultato opposto, risultando non persuasiva. Non ha cioè alcuna importanza sapere che effettivamente, nella realtà della cintura torinese, l'intercalare a base di «dioffà» (…), «piciu» e via dicendo abbia davvero la frequenza automatica ed eccessiva riscontrabile nel film: resta il fatto che, nell'impasto di un'elaborazione consapevolmente selettiva e stilistacamente controllata (perché a questo Serra mirava) la dosatura dell'ingrediente - come del «neh» torinese, peraggiungere un altro rilievo troppo facile - poteva vantaggiosamente essere più ferma. Il far risaltare come questa inerte ricorrenza lingustica finisca per essere l'unica forma di non comunicazione vigente fra i personaggi, non di meno, riesce: ma meglio riescono, a riprova, quando possono farsi largo fra troppo insistite banalità gergali, le implacabili e talora folgoranti massime fatalistiche che espongono le regole inesorabili dei degradati rapporti ambientali, o certi azzeccati voli del filosofare perduto e «poetico» di Betty con la sua voce acerba e dolente di risentimenti («latitare latitante in Torino», dice una volta).
Sono anche simili risvolti, oltre ai retroterra preparatori (le venti ore di videoregistrazioni preliminari) e scientifici (la ricerca universitaria sul linguaggio giovanile di Maurizia Tovo, ricordata perciò come collaboratrice alla sceneggiatura nei titoli di testa), a dare la misura della serietà del lavoro di Serra. Dai cui squilibri e dalle cui scelte, peraltro, finiscono per derivare anche alcuni punti di forza del film: a cominciare dal modo di porsi delle due interpreti rispetto ai loro personaggi. Maria Monti impiega per Verdiana un parlato e un gestire volutamente quotidiano, ingrigito e dimesso, che sa ben riassumere le aspirazioni e le incertezze, le illusioni e le depressioni d'una condizione umana ed esistenziale particolarmente disincantata ma non rinunciataria (abile e giusta, qui, la scelta di Serra di evitare un giudizio diretto sul personaggio, lasciandolo problematicamente allo spettatore senza forzarne ai suoi occhi né gli aspetti «positivi» né i «negativi»). Oria Conforti, con un'intrepida e un po' spericolata - ma imbrigliata dall'autore, che vi rispecchia tutto il suo profondo amore per il personaggio - spontaneità, finisce per sostenere in modo assai rimarchevole un ruolo che trascende in non piccola parte i suoi limiti grazie al perfetto combaciare con la sua presenza fisica e con l'eccezionale intensità del suo viso, fino a rivelarsi in possesso d'una tipicità esemplare (e questo finisce per essere, a un tempo, il risultato più incontroverbile del film, ma anche quello che lo rende più direttamente criticabile). Tuttavia, in ultima analisi, operazioni del genere sono non solamente lecite e possibili, ma comunque forse non inutili, tanto più quando condotte al miglior livello raggiungibile di rigore: lo possono documentare i riferimenti a due consimili imprese a nostro avviso assai più felici, tra quelle immediatamente confinanti coi territori ritagliatisi da Serra: Anna di Grifi e Sarchielli per un verso, Panni sporchi di Giuseppe Bertolucci per un altro. Non occorre del resto ormai più essere sociologo, insegnante e giornalista per sapere, al di là della «valutazione», necessaria e sensata o meno che sia, del film, che oggi l'alienazione collettiva giovanile, tanto più tra gli adolescenti delle periferie metropolitane, appare in vistosa e capillare progressione, proprio nei modi e termini da esso «denunciati»: si pensi alle domeniche in discoteca, alle bande contrapposte, alle piccole e grandi trasgressioni coattive che costellano drammaticamente il loro tempo libero.
Anche per questo, comunque la si pensi sul suo lavoro, che può suscitare, nel caso, perplessità metodologiche di fondo, risultano assolutamente immotivati e da rigettare i linciaggi cui si abbandonò lo scorso anno a Venezia una parte della critica: La ragazza di Via Millelire è un film che costringe piuttosto a interrogarsi e a nutrire perplessità e dubbi, che non a tranciare di netto giudizi definitivi. A questo avrebbe dovuto indurre anche il passato lavoro di Serra, sempre notevole per vibrata sensibilità politica e concreto senso dell'azione. il film, soprattutto attraverso il personaggio di Verdiana e talune su riflessioni ad alta voce («il centro sociale è una struttura comunale per prevenire e andare incontro ai bisogno della gente» recita con passiva polemicità in un momento; ma più avanti, parlando di Betty che continua a darle filo da torcere, minaccia di andarla a depositare sulla scrivania del sindaco) dà conto del divario oggi esistente tra l'essere e il voler/dover essere sul terreno dell'operare nel sociale: e rivela, nel ripensarlo globalmente, una dialetticità complessiva, che comunque ha fatto e farà discutere, e non consente di liquidarlo sbrigativamente come certi pretenziosi prodotti del cinema «sociale» postsessantottesco, con la cui faciloneria presuntuosa non ha comunque nulla da spartire, anche negli errori. Certo, è un film, per ogni verso, «d'emergenza»: ma anche il momento che attraversiamo... |
Autore critica: | Nuccio Lodato |
Fonte critica: | Cineforum n. 207 |
Data critica:
| 9/1981
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Critica 3: | |
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Libro da cui e' stato tratto il film |
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