Falso movimento - Falsche Bewegung
Regia: | Wim Wenders |
Vietato: | No |
Video: | General Video, San Paolo Audiovisivi |
DVD: | |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | Letterature altre, Storia del cinema |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Tratto liberamente dal libro "Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister" di Johann Wolfgang Goethe |
Sceneggiatura: | Peter Handke, Wim Wenders |
Fotografia: | Robby Müller |
Musiche: | Jürgen Knieper |
Montaggio: | Peter Przygodda |
Scenografia: | Heidi Ludi |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Hans Christian Blech (Laertes), Ivan Desney (l'industriale), Adolph Hansen (il controllore), Marianne Hoppe (la madre), Peter Kern (Landau), Lisa Kreuzer (Janine), Natassja Nakszynski (Mignon), Hanna Schygulla (Therese), Rudiger Vogler (Wilhelm Meister) |
Produzione: | Peter Genee Per La Solaris Film (Nunchen) - Westdeutschen Rundfunk (Koln) |
Distribuzione: | Non reperibile in pellicola |
Origine: | Germania |
Anno: | 1974 |
Durata:
| 103'
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Trama:
| Wilhelm vuole fare lo scrittore. Incoraggiato dalla madre intraprende un viaggio a Bonn che lo aiuterà a realizzare il suo sogno.
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Critica 1: | Indotto dalla madre, il giovane scrittore Wilhelm si mette in viaggio dalle rive del Mare del Nord sino alle Alpi, facendo diversi incontri. Alla fine confessa di non riuscire a "interessarsi agli altri". Ispirato ai Wilhelm Meisters Lehrjahre (1795-96) di J.W. Goethe e adattato da Peter Handke, è un film di viaggio decadente e sinuoso nei suoi lenti piani-sequenza che chiede allo spettatore attenzione razionale più che coinvolgimento emotivo nel suo tentativo, soltanto in parte risolto, di esprimere un indistinto malessere, vacuità, assenza, impotenza, indifferenza. Esordio di Nastassia Kinski col nome di Nakszynski. |
Autore critica: | |
Fonte critica | Il Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli |
Data critica:
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Critica 2: | Come tutti sanno, la «trilogia» ha inizio - bruciata ogni tappa precedente - con un ritorno: con una fuga da New York e dagli States, che si prolunga in una peregrinazione azzardata, in compagnia di una bambina volitiva, attraverso i paesaggi tedeschi fino a proiettarsi verso un primo (provvisorio) epilogo in quel di Monaco (ma le ultime immagini sono ancora di movimento e i tre elementi - terra, acqua, aria - che ne entrano a far parte si qualificano essenzialmente come pure vie di comunicazione). Wilhelm Meister: chi altro può essere se non Felix medesimo, ma colto qualche tempo (anni, mesi?) prima di quell'impasse americana da cui rientrerà con un pacco di foto polaroid e con le maledizioni del suo editore. Prima che l'inusitato e conflittuale rapporto con la bambina gli avrà saputo rivelare come non sia necessariamente dalla solitudine che il bisogno della scrittura può venire rilanciato alla sua traduzione in parola, in testo.
Falso Movimento, o della scrittura. Il cinema di Wim Wenders nell'arco degli anni settanta è attraversato ostinatamente da una nostalgia evidente per la scrittura, sia che essa si esprima - come nei tre road-movie - con richiami incessanti al mestiere dello scrittore o di chi ne studia i meccanismi di formazione e di apprendimento, oppure che sia rintracciabile semplicemente nella derivazione letteraria della storia narrata per immagini (Prima del calcio di rigore, da Handke; La lettera scarlatta, da Hawthorne; L'amico americano dalla Highsmith). Una nostalgia probabilmente circoscrivibile più alla sfera personale che non a quella storico-collettiva: in altre parole, non è questione qui del cinema che «ricorda» la forma narrativa che lo ha preceduto storicamente, coltivando magari nei suoi confronti la solita aspirazione ad eguagliare il «valore artistico» che la contraddistingueva e da cui invece questo si sente escluso. La nostalgia di Wenders sembra motivata da un rapporto del tutto personale ed esclusivo con la scrittura, che gli fa scoprire in lei non una (falsa) paternità artistica, ma, più sottilmente, lo statuto privilegiato che permette al testo di sospendersi al di fuori del tempo lineare e consequenziale, che pure nella narrativa più tradizionale sembrerebbe ancora determinante e ineludibile, per configurarsi come insieme simultaneo di segni sottratti alla pressione di ogni cronologia e offerti così a una contemplazione finalmente incurante di qualsiasi intreccio. Si tratta del risultato che Wenders ha voluto fino dal principio attingere col proprio cinema: mostrare immagini a partire dalla fine di una storia, azzerare l'ansia di sapere «come va a finire», muoversi secondo giustapposizioni che fanno di ogni momento qualcosa di importante per se stesso, mai rinchiuso in un rapporto gerarchico o di causa-effetto con quelli che lo precedono e lo seguono. Ma il suo progetto acuto e destabilizzante trova nel modo di essere stesso del cinema l'ostacolo determinante: è proprio perchè, di fatto, le immagini cinematografiche vengono percepite dallo spettatore in continua relazione tra di loro e quindi anche in continuo riferimento a un loro sviluppo cronologico, che l'aspirazione wendersiana è, in ultima analisi, irrealizzabile. È dunque la coscienza infelice di Wenders che si esprime in questa continua presenza della parola nel prima e nel corso dei suoi film. Parallelamente, il fallimento risulta attutito grazie alla presenza di Rudiger Vogler, nella cui persona si incarna, in qualche modo, proprio quell'insieme di caratteristiche che Wenders cerca di realizzare nel proprio cinema, trasponendole dal suo rapporto con la pagina scritta: dolcezza e incancellabilità, disponibilità alla deriva abbinata all'apparenza della più tranquilla immobilità, verosimile disinteresse per il «dopo» in una totale adesione al «presente». È probabile che senza di lui sarebbe stato molto più difficile per Wenders arrivare ai medesimi folgoranti risultati.
Wilhelm sceglie la deriva, obbligatoriamente. Non la ricerca: gli incontri, casomai. Sceglie di muoversi dalla cittadina/prigione perchè solo così potrà avere l'opportunità di vedersi accostare dalle persone e dalle situazioni che abitano il mondo: la lunga carrellata che accompagna la salita alla collina è veramente centrale perchè vi si esplicita direttamente questo atteggiamento fondamentale di Wilhelm, fatto di apparente disponibilità, ma anche di sostanziale non partecipazione alle avventure degli altri, perchè è solamente la propria avventura ad interessarlo. Da lì in poi, significativamente, le vie divergeranno, i conflitti riapriranno la moltiplicazione delle prospettive: la compagnia si sgretolerà definitivamente.
La deriva implica un territorio in cui oscillare, paesaggi da attraversare senza mappa nè obbiettivi: il biglietto che all'inizio del viaggio viene acquistato non è che un pretesto. È giusto la fine da cui ripartire per seguire il lato oscuro della storia, quello che solitamente non viene mai raccontato. Ed è il treno, secondo la più splendida tradizione cinematografica (Hitchcock, Ford, Ozu), a diventare protagonista di questo rilancio oltre la piazza malinconica dell'immobilità verso la costellazione vagante delle possibilità; e come Baudelaire poteva innamorarsi degli occhi di una sconosciuta incrociati nella folla, lungo i boulevards parigini, così Wilhelm in un momentaneo accostamento di due treni incontra fugacemente lo sguardo che fa scattare in lui la molla del desiderio (certo molto più semplice da coltivare e da godere che non la reale vicinanza della persona che di questo desiderio è oggetto). Ancora il treno è poi protagonista di un momento di cinema puro ed esaltante in cui la dinamicità dei due mezzi si fonde nel susseguirsi di dissolvenze incrociate che fanno del treno stesso, del viaggiatore e del paesaggio, inconfutabilmente, il sipario che si apre su tutto ciò d'importante che la vicenda deve ancora svelare, traducendo l'intuizione formale in vera semplice e splendida cifra. La Germania possiede ancora dei paesaggi, dice Therese, quando finalmente si accosta a Wilhelm sulla piazza di Bonn; ma Wilhelm, ha già incontrato, sul treno, la memoria dolorosa e masochista del vecchio, che irrimediabilmente li accompagnerà riflettendosi sul territorio in cui si inoltreranno, sostanziandolo e riempiendolo di segnali, ma anche rendendosi così alla fine insopportabile nella sua cieca e vile autoflagellazione. II punto di vista del desiderio, che potrebbe felicemente informare il viaggio dei due innamorati, si complica e si sfaccetta così in quello collettivo risultante dall'accostamento di personaggi tanto diversi tra loro e tutti casualmente incrociatisi: oltre al vecchio e alla sua muta protetta, Mignon, ecco che compare il giovane poeta austriaco Bernhard Landau, timoroso eppure pronto a svelarsi ingenuamente agli occhi degli altri, malinconico e al tempo stesso capace di lasciarsi andare quasi con allegria al flusso magico degli avvenimenti e degli incontri. Sarà proprio una svista di Landau a condurre il gruppo all'esperienza traumatica della vista della morte. La permanenza nel castello dell'industriale, dopo essersi configurata dapprima come tappa ricca di un intrecciarsi di discorsi, si conclude nel silenzio e nel lutto, nella paura e nella fuga. Di fronte al cadavere dell'ospite suicida perchè incapace di accettare e di coltivare la propria solitudine, Wilhelm ha il primo gesto di rabbia nei confronti dei vecchio e della sua armonica. Bernhard abbandonerà di lì a poco la compagnia, e gli altri, pur rimanendo insieme, in realtà «prenderanno strade separate».
Falso Movimento, o della solitudine. Therese invidia e disprezza Wilhelm per la sua capacità di astrarsi da tutto quanto lo circonda, di separarsi emotivamente dagli avvenimenti e dalle persone per rinchiudersi nella sua solitudine percettiva, che egli, peraltro, pratica costantemente quale condizione necessaria della propria scrittura. «Avevo detto a Therese che volevo rimanere in Germania, visto che la conoscevo ancora troppo poco per poterne scrivere. Ma era solo una scusa. In verità desideravo con forza rimanere solo per potermi sentire tranquillamente apatico.»: le parole finali di Wilhelm sulla Zugspitze rivelano infine, se ancora qualcuno non lo avesse già colto nel corso del film, il «senso» del suo movimento: il giovane scrittore si lascia trasportare dalla propria solitudine come dalla corrente di un fiume, in attesa della «visione», dell'«esperienza» da poter registrare e tramandare. Il viaggio non è che un pretesto. La solitudine è l'unico fine, autoamministrantesi e organizzata nell'abitudine del lavoro di scrittura: quasi un rito in cui solamente può trovare spazio per crescere e infine comparire questa incomparabile mutazione dell'esistenza. Qui la presenza di Handke è evidente, fortissima: il rifiuto di partecipare in prima persona ai cambiamenti che, «imposti da una legge generale», si vanno sovrapponendo alle «tradizionali forme di vita», e alla folata di comunitarismo che in quegli anni tante parole e tante dichiarazioni ha fatto disseminare lungo le strade delle città e negli appartamenti a innumerevoli individui della sua generazione. Il rifiuto della politica è dunque l'accettazione, da parte di Wilhelm, dell'abitudine alla sola compagnia della propria interiorità, delle forme e delle attese che la popolano, dei soprassalti di desiderio finalizzati magari ad oggetti e gesti del tutto quotidiani e minimali. «Scrivo la storia di un uomo, un uomo di buon cuore, ma nel contempo incapace di qualsivoglia forma di compassione. Voglio dimostrare che bontà e crudeltà sono affini. Credo diventerà una storia politica», annuncia Wilhelm a Therese, rivelando allo spettatore come sia mutato per lui il concetto di «politico» e come ne risultino deformati i confini: si tratta di un distacco consumato per salvarsi la vita, ma non per chiudere gli occhi e rifiutarsi di guardare. La Storia e la Politica, quelle con la maiuscola, che producono la sofferenza e le macerie a cui si rivolge l'occhio sbarrato del ben noto Angelo, lasciano tracce, indizi: gocce di sangue che cadono dal naso del vecchio sono la materializzazione della memoria che ancora gli devasta l'anima e lo spinge a nascondersi nel vagabondaggio; le immagini del televisore parlano di fascismo e di dittatura, e davanti ad esse non resta che stare muti, come Mignon, perchè ogni sillaba in più - oltre il confine del silenzio - renderebbe complici, anche quando impegnati nel ruolo di chi protesta. È un giudizio corrente quello secondo cui Falso Movimento sia il meno bello tra i film della trilogia. Lo si accusa di essere troppo verboso e freddo, a confronto degli altri due. Si dice che ci si trova qui di fronte ad Handke, e non a Wenders, e che la presenza troppo marcata dello scrittore austriaco nuoccia alla semplicità affascinante del cinema del secondo. Non è forse inutile allora rilevare, a proposito di questo disagio che indubbiamente - va riconosciuto - può cogliere di fronte a questo film così scopertamente argomentante, che Falso Movimento è forse il film di Wenders che più di ogni altro ha bisogno di essere visto «al passato», in diretto rapporto con quanto succedeva nei primissimi anni settanta in Germania (e, perchè no, in Italia), per coglierne invece tutta la forza propositiva e tutto il fascino legato alla scelta di Wilhelm Meister; scelta d'egotismo per nulla compiaciuta e anzi dolente nella sua pacata ricerca delle proprie «radici» e di un proprio possibile futuro - un'ipotesi disincantata di salvezza. |
Autore critica: | Adriano Piccardi |
Fonte critica: | Cineforum n. 214 |
Data critica:
| 5/1982
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Critica 3: | Con il secondo film della trilogia della strada, Falso movimento(1974), Wenders torna ad utilizzare la pellicola a colori e a collaborare con Peter Handke, lo scrittore che scrive la sceneggiatura di questo film appena terminato di scrivere l'omonimo romanzo (che però viene pubblicato in Germania alcuni mesi dopo l'uscita del film. Falso movimento rappresenta una rielaborazione in chiave moderna del libro di Goethe "Wilhelm Meisters Lehrjahre" ("Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister") e si riallaccia alla tradizione della letteratura tedesca dell'inizio del XIX secolo, quella dell'Entwicklungsroman (romanzo di sviluppo) e del Bildungsroman (romanzo pedagogico), nel tentativo di recuperarla e di trasporla in un'opera cinematografica. Peter Handke, a proposito della genesi di questo soggetto, ha dichiarato in un'intervista: "Non era nelle mie intenzioni fare una ricostruzione storica. Intendevo invece trattare la situazione storica di chi se ne va, di chi si mette in cammino per imparare, per diventare altro, per diventare, dunque, tutto quel movimento. Era anche quanto - ne sono sicuro - ha interessato Goethe: un movimento ovvero lo sforzo di intraprendere un movimento. Con una differenza però: la coscienza e il paesaggio tedesco sono molto mutati da allora, trasformandosi in peggio. Il grande gesto ancora possibile duecento anni fa per Goethe, il grande movimento, il grande viaggio, il grande cammino, l'atto di andar via si realizza nella mia sceneggiatura unicamente come esplosione all'interno della storia e rientra nella realtà esterna soltanto sfiorandola." (…)
Ancora una volta per la parte principale Wenders si affida alla recitazione del "fedele" Rüdiger Vogler (l'unico attore presente in tutti e tre i film della trilogia della strada), affiancato da Hanna Schygulla nel ruolo di Therese e dalla quattordicenne, esordiente Nastassja Kinski in quello di Mignon. Wenders introduce in questo film la tematica riguardante lo stretto rapporto che intercorre fra Arte e Vita, prendendo spunto dal tema classico del viaggiatore di stampo romantico che "lascia tutto per andare alla ricerca del Tutto." (…).In Falso movimento Wilhelm sente l'impossibilità di stabilire un rapporto con gli altri, impossibilità dovuta principalmente al suo ruolo di scrittore che lo isola dalla realtà circostante. All'inizio del film egli dice: «Voglio diventare scrittore, ma come, senza provare interesse per la gente?». La stessa decisione di partire è più un cedere alle insistenze della madre che lo incita all'azione, che non una deliberata scelta dettata da una volontà autonoma. Così Wilhelm parte, conosce gente e vive le sue esperienze, ma sempre con l'occhio di chi se ne sta all'esterno e passivamente in disparte. Handke, a proposito di questo aspetto della psicologia di Wilhelm, ha detto: "È una cosa così fanciullesca ed ha anche qualcosa di abietto. Wilhelm ha certo degli slanci, ma colpisce veramente solo quando rimane in silenzio tra gli altri, quando ascolta. (...) Wilhelm Meister non è il vero e proprio eroe. Gli eroi nella mia storia sono altri personaggi, per esempio l'industriale nella sua casa o l'attrice. Wilhelm li attrae per poi abbandonarli, per mostrare qualcosa di sé. Essi sono molto più cordiali e coraggiosi di lui che è soltanto un curioso, che non si lascia affascinare da nulla. Dichiara sempre che ha intenzione di scrivere, vuole esprimere ciò che vede. Gli eroi sono gli altri." (…).
Un riassunto del significato da attribuire al titolo del film è contenuto in questa dichiarazione di Wenders: "Tutto il film si basa sul sottile discrimine che passa tra giusto e falso. Abbiamo cercato in ogni modo di evitare che Wilhelm e in generale gli altri personaggi non agissero mai in modo del tutto giusto. Anche i rapporti tra i personaggi non sono né giusti né falsi, ma sempre in bilico tra giusto e falso. Una volta sembra che Wilhelm abbia agito in modo retto, il momento dopo si vede che non se n'è accorto e distrugge di nuovo tutto. Perciò il film s'intitola Falso movimento." (…). Wenders voleva implicitamente richiamare l'attenzione dello spettatore sul fatto che esiste un movimento giusto e un movimento falso e che lui in questo film ha appunto descritto ciò che si cela dietro ad un movimento falso. Wenders continua affermando: "Nel film, allora, volevamo raccontare la storia di un tale che spera di capire le cose viaggiando e a cui accade l'esatto contrario. Alla fine infatti si renderà conto che il suo movimento non lo ha portato a nulla; anzi, in realtà, non si è spostato di un centimetro. Da ciò il titolo." (…). La falsità di questo movimento sta nel fatto che Wilhelm, pur compiendo il suo viaggio in conformità a quelle che nella letteratura tedesca erano state le prerogative del Bildungsroman (romanzo pedagogico) e quindi andando alla ricerca di una propria identità, si ostina tuttavia a voler vivere attraverso le emozioni di altre persone, proiettandovi se stesso senza parteciparvi attivamente. Alla fine del film, dopo aver incontrato questi personaggi da cui egli stesso si separa, scoperta l'impossibilità di rispondere con la letteratura al bisogno primario di sentirsi un tutt'uno col mondo in cui vive, Wilhelm si ritrova ad accettare l'illusorietà della sua vocazione e scopre la vanità della scrittura. (…) |
Autore critica: | |
Fonte critica: | www.italway.it/spettacolo/wenders |
Data critica:
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Libro da cui e' stato tratto il film |
Titolo libro: | Anni di apprendistato di Wilhelm Meister (Gli) |
Autore libro: | Goethe Johann Wolfgang |
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