Grande dittatore (Il) - Great Dictator (The)
Regia: | Charles Chaplin |
Vietato: | No |
Video: | Capital International Video, Videogram, Skema, mondadori Video |
DVD: | Klf music |
Genere: | Satirico |
Tipologia: | La memoria del XX secolo, Storia del cinema |
Eta' consigliata: | Scuole medie inferiori; Scuole medie superiori |
Soggetto: | Charlie Chaplin |
Sceneggiatura: | Charlie Chaplin |
Fotografia: | Karl Strauss, Roland Totheroh |
Musiche: | Charlie Chaplin |
Montaggio: | Willard Nico |
Scenografia: | J. Russel Spencer |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Charlie Chaplin (barbiere ebreo/Adenoid Hynkel); Henry Daniell (Garbithsc), Emma Dunn (Mrs Jaeckel), Billy Gilbert (Herring), Paulette Goddard (Hannah), Maurice Moskovich (Mr. Jaeckel), Jack Oakie (Benzino Napaloni) |
Produzione: | Charlie Chaplin per United Artists |
Distribuzione: | Cineteca Griffith |
Origine: | Usa |
Anno: | 1940 |
Durata:
| 126'
|
Trama:
| Un barbiere ebreo che in seguito a ferite riportate nella guerra mondiale del 1915-18 aveva perso la memoria, dopo molti anni di degenza in un ospedale ritorna nella sua città in Germania dove riapre il suo negozio. Egli capita però in un periodo in cui il dittatore che governa il paese ha iniziato una feroce lotta contro gli ebrei ed il malcapitato deve subire una marea di soprusi. Aiutato da una povera fanciulla sua correligionaria per la quale nutre dei sentimenti di affetto, egli fa subire spesso ai ridicoli ed inumani sgherri dei dittatori - il quale viene tratteggiato con sapida caricatura - dei gustosi smacchi.
|
Critica 1: | Primo film parlato di Chaplin. Da un dialogo ridotto all'essenziale (Charlot non può parlare) si passa, nel finale, all'invadenza della parola. Sequenze celebri: la rasatura al ritmo di una danza ungherese di Brahms; Hynkel che gioca col mappamondo; l'incontro tra Hynkel e Benzino Napoloni, dittatore di Bacteria. Anni dopo Chaplin espresse il suo dispiacere di averne fatto una commedia nella sua ingenua ignoranza di quel che veramente succedeva nella Germania nazista, ma il film è, comunque, una gioia da vedere ancora oggi. Ridistribuito anche, più correttamente, col titolo Il grande dittatore. |
Autore critica: | |
Fonte critica | Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli |
Data critica:
|
|
Critica 2: | The Great Dictator sancisce la scomparsa di Charlot, pur conservandone alcuni connotati: il protagonista è ora uno Charlot invecchiato, coi capelli grigi, sostanzialmente tranquillo; ha un lavoro e una bottega; ciò che gli accade non appartiene più ad una condizione esistenziale assoluta, ma è determinato da una modificazione della storia, che piomba il mondo nell'orrore. In queste condizioni, egli ha l'occasione non solo di farsi una compagna, Hannah (Paulette Goddard), ma di riconoscersi parte di una comunità sociale (il ghetto). Il rapporto servo/padrone si trasforma in rapporto oppressi/oppressori, ma la sua socialità (che non ha nulla a che vedere con la “coscienza di classe") è come sempre simbolicamente concentrata nella contrapposizione di due personaggi, cioè delle due figure dello sdoppiamento tipico del cinema chapliniano. Charlot, o il barbiere ebreo, è qui il portavoce degli oppressi, cioè il segno simbolico del “ghetto" come condizione storico-sociale (al quale però Chaplin imputa, distaccandosene razionalmente, il “grande sonno”, l'amnesia, della prima parte, durante la quale il nazismo ha preso il potere). Dall'altra parte, vero e proprio segno rovesciato, sta Hynkel, il dittatore, il nuovo (e più esasperato) polo negativo della dialettica chapliniana.
“Vanderbilt mi mandò una serie di fotografie formato cartolina che mostravano Hitler durante un discorso. Il viso era oscenamente comico: una brutta copia del mio, con i suoi assurdi baffetti, le lunghe ciocche ribelli e una boccuccia disgustosamente sottile” (Chaplin).
L'idea di farne una parodia gli viene suggerita da Alexander Korda nel 1937. Ma il punto di partenza della parodia è rovesciato: Chaplin non costruisce un sosia di Hitler, ma riconosce (come è evidentemente facile fare) Hitler in Charlot. Il rapporto Charlot/HynkeI non nasce dalla casualità della rassomiglianza, ma dal riconoscimento emblematico dell'equivalenza: la maschera di Hynkel diventa la caricatura, di segno invertito, della maschera di Charlot, dalla quale è inscindibile. Ciò spiega la presenza in Hynkel di alcuni caratteri (oltre a quelli fisionomici), che rimandano al primo Chas - e spiega soprattutto come Chaplin non abbia relegato questo sosia al ruolo di antagonista (che nel suo cinema è sempre un ruolo subordinato), ma gli abbia conferito l'importanza semantica che ha sempre riservato al protagonista. Hynkel. diventa un secondo centro del mondo, ripete ad un altro livello il potere nell'immagine proprio del suo omologo inferiore (lo stesso Napaloni, o Buffolini nell'ediziore originale, pur sorretto dalla brillante caratterizzazione di Jack Oakie, appare al suo fianco come uno dei tanti antagonisti classici, cioè in definitiva in un ruolo di secondo piano). Questo procedimento fa di HynkeI una presenza autenticamente demoniaca, come dimostra la sequenza della danza col mappamondo, sul preludio del Lohengrin di Wagner, cui si contrappone, specularmente, la Marcia ungherese di Brahms, sulla cui gioiosa leggerezza il barbiere ebreo rade un cliente.
Le due esistenze corrono parallele, attraverso la divaricazione della loro matrice unitaria, l'aggressività: in Charlot essa sviluppa il proprio carattere difensivistico, in Hynkel la propria tensione al potere. Questa complementarità, la natura sostanzialmente univoca del doppio chapliniano, dopo essere stata tante volte intuita, qui esplode nella sua forma più drammatica, a impedire che sia Charlot a produrre il superamento della contrapposizione: quando nel finale il barbiere ebreo si sostituisce al dittatore, detronizzandolo, ciò dura solo un attimo; subito dopo lo stesso barbiere ebreo, che a quella situazione è giunto narrativamente, perde i suoi baffetti e diventa Chaplin. La finzione finisce. Il personaggio non potrebbe sopportare il peso ideologico di quel discorso (sebbene, come vedremo, non sia poi un discorso così rivoluzionario come può sembrare).
Ma fino a che punto si può effettivamente parlare, come è stato fatto, di un “salto stilistico”? Si è visto come Chaplin riduca lo spazio cinematografico, l'inquadratura, al ruolo estraniante di scena. Quando esautora Charlot dalle sue funzioni, questi si trova su un palco, deve parlare alle folle. La scena è diventata platea, la macchina da presa è il pubblico. Chaplin parla direttamente a noi dallo schermo, non parla a un pubblico immaginario. Prende le distanze esplicitamente sia da Hynkel che da Charlot, rivendica la propria estraneità in confronto alle aberrazioni della storia che hanno portato bene e male (le due tradizionali accezioni dell'uomo chapliniano) a non essere più distinguibili. Egli propone, in definitiva, se stesso come nuovo personaggio, la cui funzione è fuori della finzione, cioè direttamente nella Storia. La scena da cui Chaplin parla è dunque la realtà, il suo ricorso alla parola evita qualsiasi ricorso alla metafora: è declamazione doppiamente provocatoria - da un lato per quello che dice, dall'altro per come lo dice (cioè per come rompe lo schema della rappresentazione).
“Hanno riso e si sono divertiti; ora voglio che ascoltino. Ho fatto il film per gli ebrei di tutto il mondo. Volevo che l'onestà e la bontà tornassero sulla terra. Non sono comunista, sono soltanto un essere umano che vuole vedere in questo paese una vera democrazia e la libertà da quell'infernale irreggimentazione che dilaga in tutto il mondo” (Chaplin).
Questa è una delle ragioni che spiegano le critiche negative mosse al film. Come è già accaduto a Modern Times, si rimprovera a The Great Dictator di avere politicizzato il comico (che prima poteva essere letto, riduttivamente, in sé), di avere quindi tradito il vero Chaplin, di avere perso lo smalto delle passate invenzioni - o di avere scelto “lo stile del moderno film sonoro”, in cui “l'umorismo sprigiona più dal dialogo e dalle situazioni che non dalla mimica e dai gag” (Huff). Nulla di più inesatto: il dialogo non è affatto comico e, tra l'altro, il barbiere ebreo non parla neppure. Certo, non mancano evidenti richiami al passato: la sequenza d'apertura ricorda Shoulder Arms; le baruffe durante il pranzo fra HynkeI e Napaloni discendono dalla slapstick comedy, in una nuova rivisitazione del mito, profondamente alterata nel suo porsi al confronto con questi referenti (è il riferimento storico, e non la meccanica in sé, a conferire il vero significato ai gag, la loro aggressività di beffa); gli scontri nel ghetto ricordano Easy Street; la sequenza del sorteggio (con le monete nel budino) è uno dei momenti più tipicamente chapliniani del film (con quel misto di comico e di crudeltà con cui Chaplin è abituato a mostrare la vigliaccheria tutta “normale" di Charlot). Chaplin usa degli schemi convenzionali, delle strutture che appartengono ad una mitologia codificata, per rivelare in essi e sopra di essi le contraddizioni specifiche del referente: il comico non è dato a priori, come forma pura, ma nasce dalla constatazione di una tragedia storica e riproduce, a sua volta, proprio il senso profondo di quella tragedia. Attraverso il comico, Chaplin approda alla storia, non più in quanto riferimento iconico naturalistico, ma alla storia in quanto senso. The Great Dictator procede costantemente su questa linea di concretizzazione continua attraverso l'astrazione del comico. Si pensi alla apertura del film. Una didascalia:
Questa è una storia che si svolge nel periodo tra le due guerre mondiali: un periodo di transizione, durante il quale si è scatenata la Pazzia, la Libertà è caduta a capofitto e l’Umanità è stata presa a calci nel sedere. |
Autore critica: | Giorgio Cremonini |
Fonte critica: | Charlie Chaplin, Il Castoro Cinema |
Data critica:
| 11/1977
|
Critica 3: | |
Autore critica: | |
Fonte critica: | |
Data critica:
|
|
Libro da cui e' stato tratto il film |
Titolo libro: | |
Autore libro: | |
|