Io sono un campione - This Sporting Life
Regia: | Lindsay Anderson |
Vietato: | 14 |
Video: | Biblioteca Rosta Nuova, visionabile solo in sede - Lanterna Home Video |
DVD: | |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | Storia del cinema |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Tratto dal romanzo omonimo di David Storey |
Sceneggiatura: | David Storey |
Fotografia: | Denys Coop |
Musiche: | Roberto Gerhard |
Montaggio: | Peter Taylor |
Scenografia: | Alan Withy |
Costumi: | Sophie Devine |
Effetti: | |
Interpreti: | Richard Harris (Frank Machin), Rachel Roberts (Sig.Ra Hammond), Alan Badel (Weaver), William Hartnell (Johnson), Colin Blakely (Maurice Braithwaite), Vanda Godsell (Sig.ra Weaver), Anne Cunningham (Judith), Jack Watson (Len Miller), Arthur Lowe (Slomer), Harry Markham (Wade) |
Produzione: | Independent Artists |
Distribuzione: | Non reperibile in pellicola |
Origine: | Gran Bretagna |
Anno: | 1963 |
Durata:
| 125’
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Trama:
| Frank Machin, un minatore inglese, grazie al suo fisico diventa un giocatore di rugby. Il successo sportivo con i relativi guadagni gli permettono facili avventure. Si innamora di una vedova, sua padrona di casa, affezionandosi anche ai bambini di lei. La donna lotta per non lasciarsi sopraffare dalla prepotenza di Frank, ma poi cede alle sue pressioni. Ma la mancanza di affetto da parte della donna che ama lo rende più arrogante con avversari e compagni di gioco e questo sarà la causa del suo declino.
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Critica 1: | Frank Machin, minatore dello Yorkshire, diventa campione di rugby, ma ha un cattivo carattere. È il primo lungometraggio di L. Anderson, il solo film tragico nel quadro del Free Cinema e, insieme a Sabato sera domenica mattina (1960) di Karel Reisz, il miglior film realistico britannico degli anni '60. "... Anderson sfida il realismo sul suo stesso terreno, adottando una costruzione esplicitamente artistica e poetica per dei personaggi e una storia che la tradizione cinematografica britannica ha consegnato alla prosa" (Emanuela Martini). Sceneggiatura di David Storey, fotografia di Denys Coop. R. Harris e R. Roberts furono candidati all'Oscar. |
Autore critica: | |
Fonte critica | Il Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli |
Data critica:
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Critica 2: | Anche This Sporting Life, tratto dall’omonimo romanzo di David Storey che in Italia è apparso col titolo Io sono un campione e che in Francia è stato ribattezzato “Le prix d’un homme” (perdendo in ogni caso l’accento ironico dell’originale) è un film sull’incomunicabilità, ma realizzato con uno stile fortemente realista che lo spoglia di oscuri simbolismi.
È che il suo autore, l’inglese Lindsay Anderson, viene sì, come Antonioni, dal documentario, ma alla sua attività cinematografica ha affiancato, negli ultimi anni, quella di regista teatrale, che lo ha necessariamente costretto a stabilire un diretto contatto col pubblico, e a dare una certa violenza visiva alle proprie intuizioni poetiche. Egli è, infatti, uno dei fondatori del “Free cinema” inglese, che fra il 1955 e il 1959 combatté animosamente contro la tradizione borghese e conformista del cinema commerciale, in favore di un realismo duro e spregiudicato: al quale si deve Sabato sera, domenica mattina e poi opere come Sapore di miele e Una maniera di amare.
Appunto Karel Reisz, regista di Sabato sera, domenica mattina, è ora il produttore di Io sono un campione: e con ciò s’intende che il “Free cinema” discioltosi come movimento, ha seminato bene. Questo di Anderson non è, infatti, un gran film, perché nel romanzo che l’ha ispirato c’è qualcosa di convenzionale, e nella regia qualche concessione al gusto del telaio troppo folto di fili, ma ha il crisma di una scuola che non vuol giocare a nascondino con la verità della vita, e vuole colpire, tagliare, spezzare le finzioni con un linguaggio aspro e virile.
Protagonista del film è il mito antico della caduta dell’eroe: un minatore inglese che, fortissimo di muscoli ma inquieto e scontento nell’animo, è ossessionato dal successo. Crede di trovarlo trasformandosi in giocatore di rugby, pagato profumatamente dall’industriale della cittadina in cui vive, e che volentieri lo ingaggia per la squadra di cui è presidente, ma presto si avvede che il successo sportivo, il denaro, l’occasione di facili avventure, non gli bastano. Egli ama, furiosamente, la vedova che gli ha affittato una camera, una donna che ha il rimorso di non aver reso felice il debole marito, e ora teme di avvicinarsi ad altri uomini. E il suo è un amore commisto di rabbia, di presunzione, e di tenerezza per i due bambini della donna, la quale a sua volta deve lottare con se stessa per non lasciarsi sopraffare dalla presenza, in casa, di un uomo così robusto, apparentemente sicuro di sé, barbaro ma forse schietto.
Col tempo, essa finalmente accetta di divenirne l’amante. La violenza, l’arroganza di lui sono tali, che però fra loro sussiste una barriera di estraneità. E questa è la disperazione del campione: aver piegato, pestandoli, i compagni e gli avversari nel gioco, e avvertire l’inimicizia, che infine trascende nell’odio, della donna che ama. Crescendo l’insicurezza, aumenta la sua brutalità. Più lei resiste al fascino dell’idolo delle folle, più lui si getta con furia nelle mischie. E un giorno ne esce con sei denti rotti. È il principio del suo declino di campione. Accusato di essere troppo duro nel gioco, l’uomo che per lealtà ha rifiutato le grazie della moglie del presidente della squadra, diviene a poco a poco un oggetto fra gli ambiziosi industriali sportivi, la folla lo abbandona, egli si sente come una scimmia che dà spettacolo. Anche la vedova quand’egli ha più bisogno di lei, lo disprezza e si vergogna d’esserne la mantenuta. Costretto a lasciare la casa, ubriaco, ramingo, avvilito, l’uomo torna infine al capezzale della donna morente, per chiederle di continuare a vivere per lui, di dimostrargli che anche un violento può amare. Ma la tenerezza è ormai inutile: essa muore, e il campione si trascina nel fango della mediocrità e nella nausea di se stesso.La linea del romanzo, così essenziale nella progressione drammatica, si frastaglia, nel film, per una serie di episodi minori che non sono necessari al ritratto dei due protagonisti. Ciò gli toglie un po’ di mordente, e lo imparenta coi film in cui l’interesse per la trama prevale sullo studio e lo scontro dei caratteri. Ma dove Anderson prende di petto il tormento del campione e della vedova, che nel vano tentativo di comprendersi si feriscono l’un l’altra, e lo esprime con immagini dure e lucide come una lama, e tuttavia intrise di umana sofferenza, allora l’opera ha l’asciuttezza del ciglio percosso ma ormai senza lacrime. Tersa d’ogni sentimentalismo, la "camera" di Anderson riassume una verità della vita nell’inesorabile solitudine cui sono condannati coloro che non riescono a uscire da se stessi. Notevole, nel film la recitazione di Richard Harris, che già recitò negli Ammutinati del Bounty, e si dice abbia avuto una parte importante nella sceneggiatura, e di Rachel Roberts, che ricorderete come protagonista di Sabato sera, domenica mattina: un’attrice non bella, ma che sa esprimere con molta bravura il dramma della donna tentata e respinta dalla forza virile. |
Autore critica: | Giovanni Grazzini |
Fonte critica: | Il Corriere della Sera |
Data critica:
| 18/5/1963
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Critica 3: | |
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Libro da cui e' stato tratto il film |
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