Dead Man Walking - Condannato a morte - Dead Man Walking
Regia: | Tim Robbins |
Vietato: | No |
Video: | Rcs Films & Tv |
DVD: | |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | Diritti umani - Pena di morte |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Tratto dall'autobiografia di Helen Prejean |
Sceneggiatura: | Tim Robbins |
Fotografia: | Roger Deakins |
Musiche: | David Robbins |
Montaggio: | Lisa Zeno Churgin |
Scenografia: | Richard Hoover |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Kevin Cooney, Michael Cullen, Jenny Krochmal, Sean Penn, Susan Sarandon, Celia Weston# |
Produzione: | Jon Kilik, Tim Robbins, Rudd Simmons per Havoc - Polygram Filmed Entertainment - Working Title Films# |
Distribuzione: | Non reperibile in pellicola |
Origine: | Usa |
Anno: | 1995 |
Durata:
| 120'
|
Trama:
| Il giovane Matthew Poncelet, condannato a morte in Louisiana, scrive alla suora Helen Prejean per avere colloqui ed assistenza in carcere. Con l'amico Carl Vitello, ora all'ergastolo, il giovane ha ucciso una notte due fidanzati che si erano appartati in un bosco. Vitello avendo tanto denaro ha potuto scampare con validi avvocati alla pena capitale, mentre Matthew è stato condannato a morte. Con l'approvazione dei suoi superiori, suor Helen (che svolge i propri compiti in un centro di servizi sociali) si appresta alla insolita missione. Matthew è un tipo fra il bullesco e lo sprezzante, ma in realta è disperato e dopo qualche contatto la suora entra in crisi. Tuttavia visita la madre del detenuto, Lucille Poncelet (con altri figli minorenni a carico cui provvedere) e raccoglie notizie ed elementi sull'infanzia del giovane, che ha contro l'opinione pubblica, la stampa e la televisione, oltre che i comitati favorevoli alla pena di morte. La minoranza invece, contraria alla barbarie delle esecuzioni in carcere, lotta invano. Ingaggiato un solerte difensore, vengono attivati gli ultimi strumenti giuridici utilizzabili, tra i quali la domanda di grazia al Governatore dello Stato, che la negherà. Suor Helen contatta i familiari delle due vittime: Earl Delacroix per il ragazzo Walter; Clyde e Mary Beth Percy per la figlia Hope, violentata e straziata prima dell'assassinio. Costoro non comprendono come la suora "difenda" un criminale non accettando loro l'idea del perdono. Malgrado lo scarsissimo tempo residuo, Matthew ha qualche cedimento: le parole della sua assistente spirituale e la Bibbia che essa gli ha dato cominciano ad avere effetto mentre le visite e l'evidente stato di angoscia e di crisi della suora aprono spiragli nel suo cuore. Suor Helen ottiene di poter assistere alla terribile prova dell'esecuzione pubblica, perché lui la vuole vicina: alla vigilia e fra le prime lacrime le confessa che lei soltanto ha dimostrato di volergli bene. Già legato al lettuccio per essere sottoposto ad iniezioni di sostanze chimiche secondo le norme in vigore per l'esecuzione, le ultime parole di Matthew sono una richiesta di perdono ai parenti presenti, la confessione della propria delittuosa complicità (ha ucciso, tuttavia, solo il ragazzo, violentando Hope) e la dichiarazione di affetto a quella suora che tende fino alla morte la propria mano verso di lui.
|
Critica 1: | Può essere utile parlare di Dead Man Walking partendo dal titolo. Significa, alla lettera, "il morto che cammina". E' una frase che nel film viene urlata dal secondino, nel momento in cui Sean Penn esce dalla sua cella, scortato, per avviarsi al patibolo. Il secondino non grida quelle parole per sadismo, o per fare un scherzo di cattivo gusto. Le grida perché fanno parte della procedura. le leggi della Louisiana prescrivono che non si può giustiziare un uomo se questi non è in buone condizioni di salute, ovvero se non è in grado di camminare con le sue gambe fino alla camera dove verrà ucciso. Gridare "dead man walking!" è come dire "ok, il morto è vivissimo, possiamo ammazzarlo". E' un paradosso che racchiude un po' il senso di tutto il film diretto da Tim Robbins: la pena di morte come un macabro rituale, che in una società moderna come gli Stati Uniti può ripetersi uguale a se stessa approfittando dell'oscurità, del segreto. In un certo senso, Robbins ha fatto il film solo per mostrarci gli ultimi 20 minuti, in cui Sean Penn viene giustiziato. E' una lunga, insostenibile sequenza, rifatta con scrupolo documentaristico, in cui l'orrore dell'"uccisione legale" di un uomo viene restituito con la sola forza dei gesti, delle abitudini - appunto, del rituale. Ha ragione, Robbins: chi vede questa scena non può rimanere tranquillamente favorevole alla pena capitale. L'orrore, l'angoscia sono troppo forti. E forse funzionano meglio di mille comizi o di mille petizioni. Dead Man Walking è un film forte, generoso, emozionante. Sarebbe stato un film più "bello", più spettacolare se Robbins avesse fatto una scelta drammaturgica diversa: meno dialoghi in qualche punto lievemente estenuanti - tra la suora Susan Sarandon e il condannato Sean Penn, maggiori "aperture" alla storia, magari un pizzico di suspense (è colpevole, non è colpevole? Lo ammazzano, non lo ammazzano?). Niente di tutto ciò. Rispettando la vera storia della suora laica Helen Préjean, che viene chiamata a far da assistente spirituale per un ragazzo accusato di duplice omicidio, Robbins ha concentrato tutto il film sul rapporto morale fra un assassino e una donna che vive la consolazione altrui come una missione. La domanda non è se Penn è colpevole o innocente. La domanda è: colpevole o innocente che sia, è giusto ucciderlo? Suor Helen non ha dubbi sulla risposta, ma certo rimane abbastanza sconvolta quando, cosciente dei mille aspetti della sua missione, si prende la briga di incontrare i genitori delle vittime. Buoni americani medi, con casetta monofamiliare e macchina in garage, che di fronte ai dubbi di Helen le chiedono subito: "Sorella, ma lei è comunista?". Ed è lì, in fondo, il cuore del film: nell'America sommersa che approva il patibolo senza nemmeno pensarci, come se fosse la cosa più ovvia del mondo; il tutto dall'alto della propria colossale ignoranza, che impedisce loro di sapere, ad esempio, che in tutti i paesi comunisti la pena di morte c'è, eccome... Non aspettatevi, insomma, un film d'azione. Aspettatevi un film serio, profondo, molto dialogato, ben recitato soprattutto da Sean Penn, straordinario nel ruolo di galeotto (il suo incontro con i familiari è davvero straziante). E aperto, tutto sommato, alla speranza: perché l'uomo che prega assieme a Helen nell'immagine finale, quasi invisibile sullo sfondo, è il padre di una delle vittime, forcaiolo convinto fino al giorno prima. In lui, forse, il seme del dubbio ha attecchito. |
Autore critica: | Alberto Crespi |
Fonte critica | l'Unità |
Data critica:
|
|
Critica 2: | "Uomo morto in marcia", grida uno dei carnefici che, in Dead Man Walking, portano Matthew a morire. Da dove viene il cinismo di parole che informano della sua stessa morte un uomo ancor vivo, che la anticipano ai suoi stessi orecchi, come se fosse già avvenuta? Da dove viene la loro volgarità promossa a rito? Tim Robbins non dà risposta a queste domande, e neppure le formula esplicitamente. Niente è nel suo film "esplicito". Se così non fosse, non si tratterebbe che d'un manifesto contro la pena di morte. E si sa che a ogni manifesto se ne può far seguire uno opposto, e senza difficoltà. Piuttosto, Robbins sceglie di mostrare quello che, in ogni Stato occidentale in cui l'omicidio sia strumento giuridico legittimo, è tenuto rigorosamente celato. Benché la regia sia impeccabile, la sceneggiatura perfetta e la recitazione grande, in Dead Man Walking non ci sono virtuosismi. Il film non ne ha bisogno. Anzi, gliene verrebbe danno. Alla sua forza espressiva giova invece il pudore allibito d'una macchina da presa che non distoglie mai l'occhio dalla scena, da tutta la scena, si tratti dell'omicidio compiuto da Matthew contro la legge, o di quello compiuto dallo Stato dell'Alabama in nome della legge. Quell'occhio, ancora, non si e non ci nasconde nulla del dolore di Matthew, così come farebbe del resto qualunque manifesto contro la pena di morte. Insieme, però, non nasconde nulla del dolore dei genitori dei due ragazzi cui Matthew ha tolto elasticità e vita. Robbins non ha un'ideologia da propagandare. Come Sister Helen - che lo spiega, quieta e ferma, al cappellano della prigione - , non è mosso dall'interesse morboso per la storia patetica d'un uomo nel braccio della morte, né dalla pietà per un'anima dannata. Al di sopra del realismo miserabile di questa alternativa, c'è la sua decisione di vedere, e far vedere, qualcosa che nessuna ideologia, nessuna parola può comprendere e descrivere per intero. I teorici della pena di morte sostengono che essa è giustificata dalla sua esemplarità deterrente. Se lo Stato davvero credesse questo - scrive Albert Camus in "Riflessioni sulla ghigliottina" - "metterebbe in mostra le teste recise". Perché, invece, nella cultura occidentale, almeno in quella recente, la materialità dell'uccisione è tenuta segreta? Qualcuno ipotizza: perché ogni atto di violenza induce alla violenza, ogni uccisione induce a uccidere. La pena capitale sarebbe cioè un incentivo implicito all'omicidio, a dispetto della fantastica esemplarità. Altri poi sospettano che lo Stato assassino si vergogni di sé. Per la nostra coscienza, la vita è un valore: non la vita generale e astratta, ma proprio ogni uomo vivo, in quanto uomo e in quanto vivo. In questa vergogna Robbins spinge i suoi e i nostri occhi. Con Sister Helen entriamo nel sacro nefasto del braccio della morte, soffrendo dei suoi meccanismi e, insieme, del cuore e dell'anima di Matthew. Il quale è certamente, orridamente colpevole. Il nostro sgomento non deriva dal timore che sia ucciso un innocente, ma proprio dal fatto che un uomo sia ucciso. Lo sgomento è poi centuplicato dall'esperienza che facciamo del dolore infinito, carnale, dei genitori dei ragazzi uccisi. Non ci scandalizza che reclamino vendetta. Semmai, ci scandalizza che altri la reclamino in nome del loro dolore. In ogni caso, continuiamo a sentire l'orrore per l'omicidio legale. Chi potrà mai convincerci che, di due assassini, uno sia giustificato per il fatto che l'altro abbia ucciso prima? E siamo all'epilogo di Dead Man Walking , alla nuovissima macchina che uccide "senza far soffrire" (come osserva Camus, chi lo affermi, non sa di che cosa parla, e soprattutto non ha immaginazione). Ancora, niente fa Robbins se non guardare e mostrare: l'avvicinarsi di Matthew a una morte a lungo attesa, il suo distaccarsi dalla madre, il suo conoscere nel proprio dolore il proprio dolore causato ad altri, il suo chiedere aiuto al di là del vetro, mentre gli infilano un ago nella carne. Sono meticolosi e asettici i suoi carnefici distaccati. Ecco la segreta, orribile saggezza del grido rituale "uomo morto in marcia": prima ancora che l'uccidano, Matthew è già ufficialmente morto. Non ci sono assassini (legali) nella prigione di Angola, ma solo funzionari. Per il resto, la pubblica opinione ha ora la sua vittima rituale, il capro espiatorio cui far spiegare il prezzo d'un sempre inappagato desiderio di sicurezza collettiva. Naturalmente, non si tratta d'un uomo morto. Si tratta d'un mostro, d'una bestia immonda e sporca come quella che, nei ricordi lontani di Helen, scatena l'ira concorde, la rabbia festosa, la violenza "buona" d'un gruppo di ragazzini. Tutto questo mostra Tim Robbins. Che il singolo spettatore lo veda davvero, purtroppo, non dipende solo dal suo film. |
Autore critica: | Roberto Escobar |
Fonte critica: | Sole 24 Ore
|
Data critica:
|
|
Critica 3: | |
Autore critica: | |
Fonte critica: | |
Data critica:
|
|
Libro da cui e' stato tratto il film |
Titolo libro: | Dead Man Walking - Condannato a morte (Autobiografia) |
Autore libro: | Prejean Helen |
|