Alambrado - Alambrado
Regia: | Marco Bechis |
Vietato: | No |
Video: | E.Mik |
DVD: | |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | Disagio giovanile, Diventare grandi, Giovani in famiglia |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Marco Bechis, Lara Fremder |
Sceneggiatura: | Marco Bechis, Lara Fremder |
Fotografia: | Esteban Courtalon |
Musiche: | Jacques Lederlin |
Montaggio: | Nino Baragli, Pablo Mari |
Scenografia: | Jorge Sarudiansky |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Arturo Maly (Harvey Logan), Jacqueline Lustig (Eva Logan), Martin Kalwill (Juan Logan), Matthew Marsh (Mr. Wilson), Enrique Ahriman (Sr. Sanchez), Cristina Cretto (Karina), Miguel Paludi (Padre Corti), Facundo Pereira (Manuel) |
Produzione: | Aura Film (Italia) - Oscar Kramer (Argentina) - Raitre |
Distribuzione: | Mikado |
Origine: | Argentina - Italia |
Anno: | 1991 |
Durata:
| 100’
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Trama:
| Sulla punta estrema dell'Argentina, in Patagonia, vivono Harvey Logan e i suoi figli, Eva - diciassettenne irrequieta e sensuale - e Juan, tredicenne introverso, taciturno e morbosamente attaccato alla sorella. Senza la madre, morta da tempo, il padre tratta severamente i ragazzi, che non seguono nessun tipo di studi. La segregazione dei Logan è quasi totale. l'unico contatto con il mondo è rappresentato da un televisore nell'albergo del paese vicino. Eva cerca di studiare il francese e sogna Parigi, mentre Juan impara a memoria genealogie della Bibbia per concorrere ad un quiz televisivo. Improvvisamente giunge al paese un giovane inglese, William Wilson, accompagnato dall'ingegnere Sanchez, che propone a Logan di vendere il suo terreno, unico della zona adatto per situarvi un aeroporto. Logan rifiuta subito la trattativa. Non esistono atti di proprietà, ma per legge coloro che occupano da anni un terreno possono ottenere il possesso dimostrando di aver apportato delle migliorie, anche solo una recinzione, un 'alambrado'. Harvey, con l'aiuto dei figli, si mette febbrilmente a piantare paletti e filo metallico. Ma quando sta per terminare il lavoro, Harvey cade a terra morto e i figli sconvolti, decidono di gettare il cadavere in mare, senza rivelare a nessuno la fine del padre. Intanto Eva chiede a Wilson di portarla via con sé, ma lui rifiuta, perché la ragazza è minorenne. Juan continua la recinzione con grande esaltazione e litiga con la sorella, che vuole andarsene. Wilson alla fine accetta di condurre con sé Eva, ma quando va a prenderla non vede il filo di ferro che Juan ha teso e, andandovi contro, muore sul colpo. Eva si dispera perché la sua speranza di fuga è svanita.
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Critica 1: | Anziano scozzese, abbandonato dalla moglie, vive con due figli adolescenti irrequieti in una casa isolata della Patagonia. All'arrivo degli emissari di una multinazionale che vorrebbe dare sviluppo turistico alla desolata landa di vento e di polvere, il vecchio si oppone, costruendo un grande recinto (alambrado) di paletti e fil di ferro. Epilogo tragico. Povero di fatti e ricco di echi e di sensibilità, quest'opera prima, all'insegna di una violenta fisicità, è un insolito film di vento, isolamento, solitudine, desolazione. E di follia. |
Autore critica: | |
Fonte critica | Kataweb Cinema |
Data critica:
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Critica 2: | Dopo i deserti arabi dei ribelli inizio secolo, dopo l' Interzona marocchina di Burroughs, Bowles e affini, dopo l' India della generazione dei fiori, saranno questi gli anni della Patagonia? Ignorata ed evitata a lungo, e con qualche ragione, questa landa desolata - un altipiano sassoso in parte argentino in parte cileno, tra le Ande e l' Atlantico, lo Stretto di Magellano e la Terra del Fuoco, disseminato di laghi glaciali e di fiumi che si perdono prima di arrivare al mare, regno della pastorizia e del vento, che soffia a centocinquanta all' ora - negli ultimi tempi è approdata alla ribalta della fantasia letteraria e cinematografica. Tutto è cominciato dieci anni fa con Bruce Chatwin e il suo ' In Patagonia' , che già la raccontava lunga sulla stranezza e la solitudine di quelle terre, ma anche, e soprattutto, sugli infiniti sedimenti culturali che il passaggio di tante colonizzazioni ha lasciato. Abbiamo rincontrato la Patagonia e le sue bizzarrie in La pelicula del Rey di Sorin e, più recentemente, nella folle sfida al Cerro Torre raccontata da Werner Herzog in Grido di pietra . E ora la Patagonia ritorna con Alambrado, il bel film di debutto del trentaquattrenne Marco Bechis. Italiano, come italiana è la produzione di Roberto Cicutto e Vincenzo De Leo, assieme all' argentino Oscar Kramer e a RaiTre. A spingerlo in Patagonia è stato un debito sentimentale nei confronti di quella punta di America Latina. Metà cileno, con un nonno che è stato sindaco di Punta Arenas, nella Terra del Fuoco, cresciuto a Buenos Aires, espulso dall' Argentina dei colonnelli per ragioni politiche, non c' è da stupirsi se Marco Bechis ha sentito il bisogno di raccontare una storia ambientata in un mondo che conosce così bene. E tanto basti a spiegare la singolarità del fatto che un brillante diplomato dell' Abedo, la scuola di cinema milanese, abbia scelto questo sfondo per il suo debutto. L' altra cosa singolare è che Bechis si guarda bene dal fare un film autobiografico, come è tradizione delle opere prime. O meglio, certo è autobiografica l' esperienza, ma non la storia, scritta con Lara Fremder, e non il punto di vista. Nella landa desolata, davanti al mare, in una casa fatiscente di cui per campare vende pezzo a pezzo gli ultimi arredi, vive l' inglese Harvey Logan con i suoi due figli. Il terzetto non è proprio idilliaco. Logan è violento. Eva è un' adolescente inquieta, provocante e vorace che sogna Parigi e studia il francese con le cassette. Suo fratello Juan è un tredicenne, innamorato della sorella e morbosamente taciturno, che impara a memoria la Bibbia sperando di partecipare a un quiz in televisione. All' arrivo in scena di un uomo d' affari inglese e di un ingegnere argentino che vorrebbero costruire un albergo e un piccolo aeroporto nei terreni vicini alla casa (sì, c' è nonostante tutto della gente che vuole andare in Patagonia) Logan si oppone, anche senza i titoli legali. Un po' per orgogliosa ostinazione, un po' per bizzarro culto della solitudine e delle tradizioni locali. Non gli resta che buttarsi nella massacrante fatica di costruire un "alambrado" (quello del titolo): un grande recinto di fil di ferro e paletti, lungo chilometri, che, secondo il diritto patagonico, dovrebbe bastare a stabilire i confini della sua proprietà. Ma quello che lui fa di giorno, gli altri disfano di notte. E se Logan ci lascerà la pelle, non andrà meglio agli altri. Juan, ossessionato dal pensiero dell' alambrado, fa a pezzi la casa pur di avere il materiale necessario alla costruzione di una staccionata infinita. La speranza di Eva di andarsene con l' inglese, ormai arresosi all' impossibilità di fare qualsiasi cosa, si arena su un tragico incidente. Bechis orchestra questa storia amara e disperata di ostinazione e di solitudine con una maturità e una misura sorprendenti in un' opera prima, e si dimostra non solo un abile scout e direttore di attori (la ragazza Eva, Jacqueline Lustig, con la sua prorompente sensualità, l' ingegnere argentino Enrique Ahriman, con l' impassibile faccia da uccello, il prete Miguel Paludi che cerca di fare il suo mestiere correndo disperatamente su una motocicletta sempre a corto di benzina, i ruoli minori perfettamente caratterizzati, si imprimono tutti nella memoria). E' anche, nonostante qualche ellissi di troppo, un notevolissimo narratore per immagini, sobrio ed essenziale, sarcastico e poetico, in un film di poche parole come gli abitanti della Patagonia. Melville - apprendiamo da Chatwin - usava l' aggettivo "patagonico" per definire qualcosa di strano, mostruoso e allo stesso tempo affascinante. Un aggettivo perfetto per Alambrado, che segna senza dubbio il debutto di un vero regista. |
Autore critica: | Irene Bignardi |
Fonte critica: | La Repubblica |
Data critica:
| 25/4/1992
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Critica 3: | Non un film di confine, di frontiera. Ma un film oltre il confine, oltre la frontiera. Il film di Marco Bechis (già, fortunatamente, senza padrinaggi nazionalistici, ma immerso in quella che Brakhage definì l’ImmagiNazione), il suo (non) svolgimento, la sua fissità claustrofobica dilatata nello spazio sconfinato del "deserto", è infatti situato in una zona che sta oltre l’ultima linea di frontiera e di confine.
Al di là dell’ultimo baluardo "civile", un microcosmo di case, già elementi fantasma fonti di apparizioni e sparizioni, esiste infatti un’ultima casa, immersa/emersa in terreni sconfinati e vuoti. Lì abita il vecchio Logan con i due figli, Eva e Juan (la moglie, in un giorno senza vento, sparì). Siamo in una estremità fisica che Bechis rende tangibile per tutto il tempo della visione (e che si introduce nei nostri occhi, nella nostra pelle). E proprio quelle terre sterminate, piatte, mono-espressive, lacerate dal vento incessante, in cui diventa impossibile segnare geografie naturali (dove finiscono terra cielo acqua?...) sono il set di un delirio imploso, anche nei momenti di maggiore crudeltà, di follia omicida, di urla e gesti ripetuti e estenuanti che possono manifestarsi, ancora una volta, in maniera diversa.
Basta l’assenza (rara, ma quando c’è, magica/impressionante, fonte di disgrazie) del vento a smuovere ma solo per poco l’incubo diventato quotidianità macabra.
Last Hope è chiamata quella zona. Nome "definitivo", ma anche "ultima speranza" di sopravvivere a speculatori venuti da lontano per spianare anche quella parte di mondo. Unica difesa, costruire un alambrado, un lunghissimo steccato per delimitare la proprietà.È quanto fa il vecchio folle Logan, mentre i figli complottano coi corpi e inseguono altri incubi. Lì, anche le passioni trovano accensioni visionarie, lontane da pruriti sessuali identificabili. In quel territorio dove "mi piace non vedere niente intorno", dice Logan, possono stipularsi accordi incestuosi (forse, ma...) e Eva può mostrare per tutto il tempo le mutandine, il vento le alza la gonna, pudori possibili sono stati lasciati indietro, chilometri prima, magari, ancora nell’ultimo agglomerato di casupole, magari dentro a quell’albergo di frontiera dove sono costretti a restare i due intrusi (per poco; per tanto tempo, per sempre, almeno uno di loro).
Eva e Juan lottano e complottano fin dall’inizio, nascosti (preservati per poco allo sguardo) e poi scovati. Non si può fuggire e non ci si può negare. Uniche possibilità, lasciarsi assorbire da uno spazio mentale, da un tempo ripetitivo e "interno". Per Eva imparare all’infinito lezioni di francese ascoltando e riascoltando frasi su un vecchio disco. Per Juan imparare a memoria le generazioni e discendenze di un tempo passato (il libro della Bibbia) in attesa di ricevere una chiamata (che arriverà, ma ancora una volta fuori tempo) dai responsabili di un telequiz. Lo spazio viene percorso da Eva, Juan, Logan (e dai pochi altri) con movimenti senza enfasi. Tanto, da quella prigione non si può scappare. Tentare, sì.
Ma non di più. Bechis lavora spesso su campi lunghi e lunghissimi. Poi, chiude sui corpi, sta loro addosso con la camera a mano, con una visionarietà quasi herzoghiana, per poi abbandonarli. Nessuna gentilezza, nessun perfezionismo. Una unica confessione. Quella fatta dalla donna dell’albergo all’inglese recluso nella sua stanza. Attraverso i vetri vedono un vecchio aggirarsi. Lei a spiegare: "Si chiama Fernandez, in un giorno senza vento uccise la moglie e i cinque figli; da allora è pazzo e esce solo quando non c’è vento per controllare che nessun altro uccida la sua famiglia". Il senso di sospensione cresce sempre più. Movimenti minimi e nessun contatto con l’esterno (qualcuno darà, illudendosi, delle lettere da spedire al tecnico in partenza, ma poi né lui né altri partiranno mai...) e neppure "dentro". Ci si muove a fatica, trascinandosi e trascinando cose. Un prete vaga per le strade con un motorino perennemente a secco di benzina (e le pompe sono ferme, inutilizzabili).
Alambrado è fatto di fughe e controfughe, tentativi di distruggere gli spazi e impossibilità a superarli. E a nulla servirà la morte del padre, del vecchio Logan nella sequenza più bella di tutto il lavoro di Bechis. Il corpo dell’uomo è steso a terra, in quella sconfinata terra. Il vento gli tocca, davvero magicamente, i capelli. Il cielo scuro "osserva" complice. Altri sguardi si perdono. Di un guardiano del faro. O di ragazzini incuriositi a scoprire cosa c’è dentro l’auto degli estranei.
Eva vorrebbe lasciare tutto. Scappare con l’ultimo/unico uomo in grado di fare quel gesto così naturale e irrealizzabile. L’ingegnere venuto per sbarazzarsi in pochi minuti di un vecchio incarognito a difendere quanto gli spetta. Ma ormai la nuova lotta senza esclusione di colpi è stata avviata. Senza più Logan e la sua auto – buttati entrambi a mare dai figli, per far sparire ogni traccia – sarà Juan a perpetrare le "difese". Uccidendo colui che avrebbe potuto portare lontano la sorella. È un attimo, un istante horror negato. Un filo teso da un capo all’altro della strada. L’auto dovrà passare di lì.
La calma piatta diventa insostenibile.
E le esplosioni di tensione e morte si trasformano – ancora ancora – in squarci interni, in implosioni feroci. Una calma piatta senza fine. Tutta orizzontale e distesa per quelle strade sconfinate, unica possibilità di "uscita" per Eva, per fuggire temporaneamente dalla casa paterna (fare chilometri e chilometri...) o per tentare l’avventura estrema, fare i pochi bagagli e andarsene. Ma quella calma piatta è un morbo pericoloso. Un contagio ormai diffuso.
Il film d’esordio di Bechis esce da rappresentazioni "territoriali", appunto. Puerto San Julian, nella provincia di Santa Cruz in Argentina, potrebbe riproporsi ovunque, nelle luci portoghesi o africane o nel Molise reso "altro" da Eronico e Cecca in Stesso sangue. Dalla terra sporgono corpi. Frammenti. E anche dall’acqua. La polizia cerca il furgone in cui viaggiava il tecnico. Lo troverà? L’inquadratura finale mostra il furgone che sporge dall’acqua del mare. Un’escrescenza di un décor (quasi) immutabile colpito senza tregua dal vento dalla polvere dal freddo. |
Autore critica: | Giuseppe Gariazzo |
Fonte critica: | Cineforum n.315 |
Data critica:
| 6/1992
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Libro da cui e' stato tratto il film |
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