Grande Lebowski (Il) - Titolo originale: Big Lebowski (The)
Regia: | Ethan Coen; Joel Coen |
Vietato: | No |
Video: | Cecchi Gori |
DVD: | Home Vi |
Genere: | Commedia |
Tipologia: | Spazio critico |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Ethan e Joel Coen |
Sceneggiatura: | Ethan e Joel Coen |
Fotografia: | Roger Deakins |
Musiche: | Carter Burwell |
Montaggio: | Roderick Jaynes (alias Ethan e Joel Coen), Tricia Cooke |
Scenografia: | Rick Heinrichs |
Costumi: | Mary Zophres |
Effetti: | |
Interpreti: | Jeff Bridges (Jeffrey Lebowski, detto il Drugo), John Goodman (Walter Sobchak), Julianne Moore (Maude Lebowski), Steve Buscemi (Donny), David Huddleston (il Grande Lebowski), Philip Seymour Hoffman (Brandt), Tara Reid (Bunny Lebowski), Ben Gazzara (Jackie Treehorn), Philip Moon, Mark Pellegrino (i due scagnozzi di Treehorn), Peter Stormare (Uli, il nichilista), Flea, Torsten Voges (gli altri due nichilisti), Jimmie Dale Gilmore (Smokey), Jack Kehler (il padrone di casa del Drugo), Sam Elliott (lo Straniero), John Turturro (Jesus Quintana), James G. Hoosier (l’aiuto di Quintana), David Thewlis (Knox Harrington), Jon Polito (il detective privato), Aimee Mann (la donna nichilista), Jerry Haleva (Saddam) |
Produzione: | Ethan Coen per PolyGram Filmed Entertainment - Working Title prod. |
Distribuzione: | Cecchi Gori |
Origine: | USA - Gran Bretagna |
Anno: | 1997 |
Durata:
| 127'
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Trama:
| Los Angeles, 1991, prima della guerra del golfo. La voce di uno straniero ci introduce la storia di Jeff “Drugo” Lebowsky, disoccupato giocatore di bowling, e dei suoi compagni di squadra Walter Sobchack, veterano del Vietnam, e Donny. Si racconta della volta che, scambiato per il miliardario disabile Jeff Lebowsky, Drugo viene aggredito dagli scagnozzi del pornografo Jackie Treehorn, che gli pisciano sul tappeto. Recatosi dal miliardario per un risarcimento danni, il Drugo se ne torna a casa con un tappeto nuovo, non prima di essere stato ingiuriato dal miliardario. Di lì a poco quest’ultimo si avvarrà dell’aiuto di Drugo per consegnare il riscatto per liberare la moglie del miliardario, Bunny, un’attrice porno nelle mani di un gruppo di nichilisti tedeschi. Per colpa dell’intervento di Walter, che getta dalla macchina una finta valigetta con delle mutande sporche, la consegna fallisce. Nel frattempo è entrata in scena Maude, figlia del miliardario e proprietaria del tappeto, pittrice encomiata per la sua arte vaginale, che ritiene che il rapimento sia solo una messa in scena. Intanto la macchina di Drugo con dentro la valigetta viene rubata; un ragazzino ritenuto il ladro; un dito mozzato viene spedito al miliardario, la casa di Drugo fatta a pezzi dagli scagnozzi di Treehorn; Maude si fa ingravidare da Drugo... Infine si scopre che Bunny non era mai stata rapita, che lo stesso miliardario, nullatenente, aveva usato una valigetta fac-simile per il riscatto. Nell’ultimo scontro con i nichilisti, massacrati di botte da Walter, Donny muore di infarto. Dopo le esequie pseudo ebraiche officiate da Walter su una scogliera, i due amici tornano al bowling per finire il torneo che li oppone al pervertito Jesus Quiniana mentre lo straniero annuncia l’arrivo di un piccolo Lebowsky.
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Critica 1: | Raymond Chandler, la cultura hippy, la nostalgia degli anni Settanta, la guerra del Golfo. Prendete questi ingredienti, aggiungete l’umorismo ebraico che è assicurato quando i registi si chiamano Coen, e scuotete per quasi due ore. Il risultato è Il grande Lebowski, nuovo film dei micidiali fratellini già responsabili di gioielli come Arizona Junior, Crocevia della morte, Barton Fink. Presentato al festival di Berlino, snobbato in patria rispetto all’inaspettato successo di Fargo, Il grande Lebowski è uno dei capolavori di questa geniale coppia di registi. Dove Ethan firma solo produzione e sceneggiatura mentre Joel (il maggiore) è responsabile della regia, ma si sa che l’apporto creativo è comune e condiviso al 50%. Come in Crocevia della morte, i Coen si confrontano con modelli classici della letteratura americana, riscrivendoli a modo loro, con robuste iniezioni di ironia. La trama è puro Chandler, ma la Los Angeles in cui si muovono Jeff «Drugo» Lebowski e i suoi stralunati amici Walter e Donny è quella dei primi anni Novanta, in piena sindrome anti-Saddam. (...) All’intrigo narrativo corrisponde una sfrenata inventiva. I Coen giocano con le regole del «noir» infilandoci citazioni di Busby Berkeley, della Bibbia, dei film western, della musica americana anni Settanta (c’è una gag sugli Eagles che i rockettari apprezzeranno) e naturalmente del loro nume tutelare, Kafka. Perché, sotto la crosta ridanciana, l’equivoco su cui si basa la storia riesce a trasformarsi in una grande, beffarda parabola sull’identità. Coen Brothers allo stato puro, insomma: un godimento per la mente. Con l’ausilio di attori strepitosi: Jeff Bridges e John Goodman sono rispettivamente il «drugo» e Walter, eccezionali, Steve Buscemi è una bravissima spalla e John Turturro si esibisce in un cammeo memorabile. Lo si vede per 5 minuti, ma si mangia il film. Al vostro piacere di spettatori scoprire come. |
Autore critica: | Alberto Crespi |
Fonte critica | l’Unità |
Data critica:
| 1/5/1998
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Critica 2: | The Big Lebowski si svolge a Los Angeles, proprio come un romanzo di Chandler, e inizia con una voce fuori campo che ci terrà compagnia fino alla fine. È un noir polposo di Joel Coen, una commedia etica sulla mecca del cinema, sulla capitale dei miliardari. Jeff Lebowski (Jeff Bridges), soprannome non proprio edificante “the Dude” (un tipo che fa cilecca?), disoccupato, sessantottino, capelli lunghi, giocatore di bowling, fumatore di spinello e bevitore di White Russia, cocktail spacca fegato a base di vodka, latte e Kalhua, viene scambiato da tre gangster di origine tedesca (i “nichilisti”) per il vero Lebowski, il big del titolo, un miliardario in carrozzella che vive a Pasadena e che deve loro un sacco di soldi. Scambio di persona, proprio come nei migliori Jerry Lewis, tipo Jerry 8 e 3/4 o I 7 magnifici Jerry. E come nei film di Lewis quello che viene davvero inquadrato e vivisezionato è il cuore della metropoli, i suoi miti effimeri, la sua grandezza segreta, la sua volgarità debordante. Tramite lo zoom, il blow up, dell’umorismo, del sarcasmo, dell’inversione della logica e dell’invettiva satirica. Incastrare l’Hawks della commedia dentro quello del thriller cupo è impresa impossibile. Per cui il film a un certo punto si affida alle sole performances di attori, ai corpi, tutti di qualità e quantità stupefacente: da John Goodman (l’amico di Dude), commerciante polacco cattolico, conoscitore di storia militare, che si spaccia per ebreo e conosce le opere complete di Lenin, a Julienne Moore (la figlia del “Big Lebowski”) che incarna con sottile perfidia l’artista losangelina; dall’ex surfer suonato Steve Buscemi al dio ispanico del bowling, Jesus Quintana, un irriconoscibile, (eppure è sempre lui), John Turturro. La follia di questo mondo immaginario trova un’ancora narrativa nel 1991, quando Bush decise di “fargliela vedere a Saddam Hussein”, utilizzando i metodi mafiosi di avvertimento, per la prima volta in modo così esplicito. E la nostra banda di sbandati, i quattro contro tutti che si muovono all’inizio solo perché the Dude è storto perché i teppisti nichilisti gli hanno sporcato il tappeto, proprio come Marlowe, si muoverà così bene da costituire un esempio e un precedente per tutti noi. Ci siamo, esistiamo, per quanto piccoli e fragili possiamo sembrare. Siamo più giganteschi dei “nichilisti feroci”. |
Autore critica: | Roberto Silvestri |
Fonte critica: | il Manifesto |
Data critica:
| 17/2/1998
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Critica 3: | Sospinta dal vento, una palla di rovi rotola per il deserto. Seguendola, la macchina da presa arriva sul bordo di un’altura: in basso, c’è Los Angeles illuminata. Guidati dai rovi e dal vento, ora i fratelli Joel ed Ethan Coen s’addentrano nella città, loro presi dal piacere di raccontare e noi da quello d’ascoltare e guardare. Intanto ci introduce alla narrazione la voce di Sam Elliot (più avanti, lo vedremo nel ruolo d’uno straniero con un cappello da cow-boy). All’epoca della guerra del Golfo, racconta, c’era a Los Angeles Jeff Lebowski detto Drugo, il più pigro dei suoi abitanti. Altre cose aggiunge, e ancor più ne aggiungerebbe se, quando ormai la macchina da presa sta addosso a Drugo (Jeff Bridges), non s’accorgesse d’aver perso il filo. Ed è ora, quando il filo s’è imbrogliato a sufficienza, che il racconto vero e proprio dei Coen prende il via. Che cosa è Il grande Lebowski? Forse una trasposizione di The Big Sleep, la terza dopo Il grande sonno (Howard Hawks, 1946) e Marlowe indaga (Michael Winner, 1978). Certo, la storia di Drugo rimanda al romanzo di Chandler e al suo stile narrativo, al confondersi dei fili (appunto) della sua trama. Eppure, Drugo non è Marlowe. Non ha il suo disincanto cinico e insieme addolorato, e non ne sente la mancanza. Insomma, Jeff Lebowski è quello che il suo soprannome suggerisce. Dude: così è e vuole essere chiamato nell’edizione originale. La traduzione italiana, Drugo, non ha senso. I drughi (droogs) erano Dim, Pete e George, violenti accoliti di Alex, lo stupratore di Arancia meccanica (Stanley Kubrick, 1971). Jeff Lebowski non è violento né stupratore. Pare piuttosto un buon diavolo senza pretese e senza (troppi) rimpianti, un tizio fuori dal gioco. Questo significa dude: tizio, ganzo. Nella parola c’è già il ritratto di Drugo/Dude, ragazzo invecchiato degli anni 70, indolente “atleta” da bowling, accomodante antieroe che nutre la sua soddisfatta abulia di spinelli e white russians e che solo la faccenda d’un tappeto inzuppato d’orina ha spinto per caso nel “giro grosso”. È tanto tizio, il povero Lebowski, che il suo film porta un titolo che non lo riguarda, e che invece riguarda il suo doppio, nel senso del suo contrario: Jeff “Big” Lebowski. Non a caso, i Coen glielo e ce lo presentano seduto su una sedia a rotelle accanto al fuoco, in una grandezza tragica da patriarca e miliardario che contrasta con l’insignificanza ridicola di un dude qualunque. Che poi anche lui non sia in realtà che un dude, solo un po’ più furbo, fa parte della visione del mondo dei disincantati, sarcastici, geniali fratelli Coen. La sola storia per cui s’appassioni è quella, senza capo né coda, imbastita giorno per giorno con le bocce del bowling, in compagnia di Walter (John Goodman) e di Sonny (Steve Buscemi). Il secondo non riesce mai a terminare una frase, ogni volta zittito dai suoi due soci. Il primo, veterano del Vietnam, è un Rambo da farsa, un dude ancora più dude di Dude/Drugo, uno sciocco, un pasticcione convinto che la vita sia tutta un «segnare una linea sulla sabbia» e poi pretendere che nessuno la scavalchi. Se potesse, più d’una volta il “piccolo” Lebowski pianterebbe in asso la storia in cui s’è ritrovato, fuggirebbe via dal film e dal suo scomodissimo, dannatissimo filo narrativo, per andarsi a sprofondare in una vasca da bagno, beandosi di fumo e alcool, e di ricordi patetici degli anni 70. Ma, appunto, ogni volta la trama lo riprende, ora per mano d’un trio di tedeschi tonti e nichilisti (ma pronti all’indignazione, dimostrando così d’essere più tonti che nichilisti), ora per mano d’un lenone cinematografico con gusti e velleità da mafioso hollywoodiano (Ben Gazzara). Pare dunque che, in questo loro (bel) film “minore”, i Coen si divertano a raccontare uomini che non hanno alcuna storia che sia davvero raccontabile, e che al massimo reggono la dimensione dell’aneddoto, della piccola leggenda di quartiere (un capolavoro è, in questo senso, il Jesus Quintana di John Turturro). Persino l’epica per così dire oggettiva delle ceneri di Sonny disperse nel vento, in mano ai suoi due soci diventa una farsa, con Drugo che si prende in faccia quel po’ che resta dell’amico. E così siamo alla fine del film. I Coen ci hanno portato fin qui senza preoccuparsi di chiudere la trama relativa a Jeff “Big” Lebowski, alla figlia rapita, al milione di dollari. S’accontentano di qualche cenno, lasciandoli a noi da tirare, i fili. Sono molto più interessati a seguire il ritorno di Dude/Drugo al suo bowling, ai suoi spinelli, ai suoi white russians. Ora, lo straniero con il cappello da cow-boy ce ne racconterà delle belle, sul suo conto. O lo farebbe se – c’era da sospettarlo – non riperdesse il filo. Il quale filo, chissà, forse se n’è andato di nuovo in giro tra Los Angeles e il deserto, inseguendo con gusto e piacere una palla di rovi sospinta dal vento. |
Autore critica: | Roberto Escobar |
Fonte critica: | Sole 24 Ore |
Data critica:
| 10/5/1998
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Libro da cui e' stato tratto il film |
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